L’oggetto in sé non significa nulla. L’arte perviene col suprematismo all’espressione pura senza rappresentazione.
Sembra una brutta parola e invece Suprematismo per Malevich rappresenta la superiorità assoluta della sensibilità plastica. Non troppo concreto come concetto ma poeticamente nobilissimo. Il vero problema nasce quando di un artista di questo calibro non sono ancora stati tradotti alcuni libri, altri invece recensiti a spanne e alcuni quadri rimasti chiusi in soffitte inaccessibili del Museo Russo di San Pietroburgo. Inoltre, l’autore non ha datato alcune opere e questo non ha aiutato gli storici a dare una linea netta al Suprematismo che rimane scisso in due periodi ma con non poche lacune storico sociali. Dal 1913 al 1915 prende il sopravvento il Suprematismo Meccanico di impronta cubo futuristica, dal 1915 il Suprematismo Cosmico.
Per l’autore la sensibilità pura ha il sopravvento nell’arte, le apparenze della natura non offrono alcun interesse, così semplicemente come appaiono, ma si arricchiscono di vigore e potenza se descritte secondo le sensibilità di chi le fruisce. Solo la sensibilità è essenziale, lo afferma proprio l’autore e lo si denota nelle sue opere, al primo sguardo. Le forme sono esaltate in chiave segnica con colori e si avvicinano al sentire e sempre meno alla realtà effettiva. E’ come se Malevich parlasse di realtà rivelata, di una dimensione illuminata appartenente solo a lui e ad ogni artista e pure ad ogni osservatore.
Malevich, insomma, pecca di prossemica: lungimirante e quanto mai contemporaneo.
La prossemica è la disciplina semiologica che studia le distanze all’interno di uno scambio verbale o non verbale. La prossemica si occupa di studiare il significato che, nel comportamento sociale dell’uomo, assume la distanza che l’individuo interpone tra sé e gli altri e tra sé e gli oggetti e quindi il valore attribuito da gruppi sociali al modo di porsi nello spazio e al modo di organizzarlo. Nello stesso modo Malevich frappone una distanza sensoriale tra l’opera e il fruitore che poco conosce di lui, a causa della mancanza di una vera e propria storiografia, e che può vivere l’opera solo grazie ad uno spazio emotivo che è solo suo, e che appartiene solo a lui. Il parametro di analisi, pertanto, rimane nelle mani dello spettatore che decide, consapevolmente o meno, i metri immaginari di distanza nell’atto del sentire e vivere l’opera affinché emerga la supremazia dell’aspetto espressivo puro.

Un concetto quanto mai attuale: l’accesso ai musei e alle gallerie, di non primaria importanza per la gran parte della massa umana, è contingentato non tanto perché altrimenti si creerebbero affollamenti inaspettati ma perché la possibilità che un gruppo di osservatori si possa fermare di fronte a un’opera per un tempo illimitato o sconosciuto, ad una distanza fra loro e l’opera e tra essi stessi non calcolabile e prevedibile, potrebbe causare pericolo di assembramento. Si previene un pericolo demotivando lo spettatore dell’atto per cui è tale: osservare. Anche questo è diventato pericoloso…e allora diamo spazio al sentire, al vedere con tutti i sensi, e ad acuirli in nome di una percezione artistica sempre più intima e …meno pericolosa.
Il concetto di prossemica così viene forzato e stritolato per il collo, impedendo la libera fruizione dell’opera e il libero scorrere di quel suprematismo che Malevich osannava. Il suprematismo del sentire un’opera e di moderare le distanze tra questa, il proprio approccio cognitivo all’opera e il proprio semplice e libero fluire del sentire.
Per tale motivo un autore come Malevich è perfetto per esercizi di meditazione in museo o galleria o per nuovi esperimenti di sensibilizzazione sensoriale. Un nuovo modo di osservare l’arte attraverso il corpo e le sue sensazioni. Non un semplice slancio di supremazia come teorizzava Malevich ma un vero e proprio scettro del potere che dall’esperienza cognitiva passa all’esperienza sensoriale. Nulla di più blasfemo per i galleristi incartapecoriti e ingobbiti dal fardello del sapere che pure ci deve essere e deve far parte di un approfondimento imprescindibile. C’è, però, la necessità di far ritrovare un senso (nel profondo significato etimologico del concetto) alla fruizione artistica con rimandi forti all’espressione pura della percezione attraverso il corpo. I sensi hanno bisogno di attivarsi prima della conoscenza e della coscienza affinché l’opera sia vissuta in una dimensione più prossima e quindi ricordata dalla mente più a lungo perché legata all’esperire pratico, concreto.
Ed è quello che propongo davanti all’opera di Malevich, White on White: dimenticarsi delle scarne informazioni appena lette e osservare le pennellate di bianco che sovrastano la tela. Osservarle da distanze diverse e allenare l’occhio a cercare un particolare da molto vicino e poi da molto lontano. Chiudere gli occhi e cercare di ricordare il verso delle pennellate, lo spessore del colore, la purezza del pigmento o la contaminazione con il pennello e i suoi peli, osservare le sfumature del bianco. Si può?
Si deve.

Si può osservare il bianco e trovare in lui ogni forma di colore e linea a noi indispensabile. Il bianco rianima la mente e la fa galleggiare in uno stato innocuo di libertà creativa. E’ mare di infausta vuotezza che permette l’immobilità della mente. Ne arriva un’onta di fecondità selvatica che fa tremare gli arti inferiori, quelle vibrazioni che in bioenergetica si chiamano grounding. Puro stare. Stare nello stare. Stare nel sentire.
Questo è il tuffo nel bianco che si può fare attraverso il corpo che, aiutato dal respiro, inizia a planare, dal tappetino yoga o dalla sedia, ad un universo più consapevole. Il colore della consapevolezza per me è il bianco perché è riscrivibile, mutevole eppure nettissimo, perché può cancellare o essere facilmente ricoperto, perché è denso e lunare, perché invoglia a sporcarlo, incita alla libertà d’espressione…quella dei bimbi liberi e puri.
Condurre una meditazione attraverso le opere d’arte vuol dire iniziare i partecipanti ad un viaggio che ha un bivio: da una parte l’assenza di coinvolgimento più scura e subdola, quella che poi si tramuta in sonno profondo e indifferenza totale ma che, comunque, placa i pensieri ossessivo compulsivi della mente e dall’altra il viaggio interiore che diventa possibilità, alternativa alla conformità.
Per quello le gallerie si stanno aprendo ad attività sensoriali sempre più corporee, lo insegna anche Marco Peri nella sua ginnastica estetica. E sono molti gli Yogin che si avvicinano alla pratica non solo nei musei e nelle gallerie ma anche portando le opere d’arte negli studi Yoga.
La nostra mente che, anatomicamente, è parte del corpo, ha bisogno di provare l’arte, di esserne coinvolta e farne parte. E, allora, esercizi che coinvolgano tutti i sensi possono diventare necessari per un coinvolgimento più acuto. Che dimentica, solo per alcuni istanti il cognitivo.

Esso diventa base indissolubile, substrato necessario: la conoscenza è fertilizzante e permette semine e raccolte rigogliose. Ma da sola rischia di non dare mai valore a quel raccolto, che rimane fecondo per massa ma non per sapore. I sensi ci permettono di aprire una breccia libera, spontanea nei meandri neuronali e sinaptici che regolano la secrezione di ormoni che interferiscono con il sistema nervoso favorendo o meno l’apprendimento di un concetto e la sua assimilazione. Ci si può convincere di studiare tomi e tomi per ore e ore ma se i nostri sensi non sono coinvolti, l’endorfina che tali informazioni producono una volta in contatto con le sinapsi preposte non saranno sufficienti a irrorare il corpo e, quindi, le sensazioni che ne derivano saranno neutre. Nulla di più insufficiente davanti ad un’opera d’arte. La neutralità è il male a cui ci stiamo spingendo, obbligando, davanti allo scorrere compulsivo di immagini piatte che rispettano canoni di comunicazione tutt’altro che emozionali.
E quando le endorfine e la serotonina restano a livelli equilibrati nel nostro organismo allora la mente si apre e crea canali di scolo entro cui può scorrere tutto il fertilizzante necessario. Sembra magia e invece è scienza pura, è anatomia funzionale.
Quello che predispone la mente all’ascolto non è altro che una preparazione del corpo attraverso il controllo del respiro e alcuni piccoli esercizi che possano risvegliarla.
Tutti possono guardare un’opera d’arte e sentirla, viverla. Non bastano i comunicati stampa e le guide piene di date e informazioni, tanto meno le audio guide asettiche.
Serve l’uomo, che con il suo corpo conduca se stesso e il visitatore attraverso il proprio. Attraverso il sentire.
Daniela Ficetola
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