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This must be the place! Effetti del turismo da cinema e da serie TV

Calcare le strade di certe città procura anche allo spettatore più disattento e distratto déja-vu assicurati: non c’è angolo di New York, ma anche di Roma, Los Angeles, Parigi, Londra, che non evochi un profumo, un’ambientazione, un mood di derivazione cinematografica, aiutandoci ad immergerci automaticamente in set che sono diventati parte integrante della nostra memoria e di quella collettiva.

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C’è una cittadina spersa in un angolo sparuto degli States che ci ha tutti forgiati, “istruiti” ossessionati, che conosciamo come il nostro quartiere e che allo stesso tempo non sappiamo neanche che esiste. Se per caso incappate in Wilmington, ridente cittadina  del North Carolina, potrete trovarvi davanti alla villetta di Julia Roberts in “A letto con il nemico”, o al “tranquillo” quartiere della tipica provincia americana di “Velluto Blu” di David Lynch, ma soprattutto potrete vedere le mitiche case sul lago di “Dawson’s creek” (sempre che i veri proprietari, esasperati, non vi usino come tiro al bersaglio) e, come in un cortocircuito malizioso, i campi da basket del suo diretto concorrente, “One Tree Hill”.

Ci sono posti come questo che privi di una forte fisionomia plasmano se stessi in virtù delle esigenze sceniche, mostrando una duttilità estrema come camaleontici teatri da studios cinematografici, e declinandosi in infinite possibili scenari, e poi ci sono quei set “naturali” che invece caratterizzano pellicole prestando loro le cornici più suggestive e rendendo memorabili certe storie come fossero veri e propri silenti co-protagonisti.

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E’ inevitabile citare il solito, ma sempre vitalissimo concetto di “non-luogo” come concetto cardine della surmodernità e del postmoderno coniato dall’antropologo Marc Augè quando si deve parlare della prima categoria di location, là dove uno scenario per quanto reale e cittadino è solo attraversato da una serie infinita di individualità che non interagiscono, perché appartenenti a set paralleli, ma solo si sfiorano senza lasciare tracce l’uno con l’altro in un costante sovrapporsi e sedimentarsi di storie.

Sono luoghi fluidi dunque, mobili e mutabili.

Ma anche quei luoghi reali che afferiscono alla seconda categoria e che il cinema cristallizza e rende mitici diventando mete di un vero e proprio turismo dedicato, da tangibili spesso si fanno artefatti e si svuotano della loro identità per acquisirne una differente, mutuata dal film o dalla serie che li rende iconici.

Che si tratti della prima o della seconda tipologia di location il fascino del riconoscere in un luogo mai visitato una familiarità personale che si fa collettiva è irresistibile e attrae chiunque.

Ad ogni angolo di Hollywood si trovano venditori di mappe dedicate, oltre che alle ville delle star, alle location più note di Los Angeles, dalla mitica Mullholland Drive ai luoghi di “Beverly Hills 90210”, così come a New York esistono veri e propri tour organizzati per ritrovare i luoghi di “Sex and the city” e a Londra e Parigi quelli di film diventati di culto come “Notting Hill” e “Il Favoloso mondo di Amélie“.

Sex-And-The-City-Places-New-York3Inevitabile per un cultore del grande cinema classico in visita ad esempio a San Francisco non ricalcare le orme di Hitchcock sulle tracce di “Vertigo”, così come in un ipotetico coast to coast non “googlare” alla ricerca del terrificante “Overlook hotel” di “Shining” (che per la cronaca e per chi si vuole cimentare nella ricerca è la sintesi immaginifica di due luoghi realmente esistenti, uno nell’Oregon, uno nello Yosemite National Park) o del mitico Monte Rushmore di “Intrigo Internazionale“. Il selfie stagliato sul set del film o della serie del cuore è diventata l’immagine archetipica del turista per eccellenza, alla stregua delle più classiche foto mentre sorregge la torre di Pisa o lancia la moneta nella Fontana di Trevi, quest’ultima, tra l’altro, esempio cinematografico dalla fortissima connotazione iconica, Fellini Docet.

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Le Scale di “Rocky” a Philadelphia, quelle degli “Intoccabili” nella stazione di Chicago, e persino quelle del Met di New York celebrate in “Gossip Girl” si contendono l’immaginario con la più celebre delle boutique Tiffany sulla 5fth av. Di New York, proprio quella dove Holly/Audrey Hepburn consuma trasognata la colazione o con il negozio di giocattoli FAO Schwarz, che, a pochi passi da lì, lungo la stessa via, è entrato nell’immaginario collettivo con la celeberrima sequenza di Tom Hanks in “Big”.

Imbattersi per caso in un luogo cinematografico genera nell’appassionato un proustiano “effetto madelaine” che innesca a sua volta un irresistibile impulso di coazione a ripetere che si sublima nella visione reiterata, ma anche nella ricerca ossessiva dell’immortalare quella scena, quella inquadratura, come a volerne testimoniare la veridicità e la plausibilità, da veri cultori dell’ontologia dell’immagine cinematografica, per scomodare Bazin.

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Ed è così che Christopher Moloney, artisca canadese, ha pensato di celebrare questa ossessione dell’uomo contemporaneo per la ricerca compulsiva del ricordo filmografico in un interessante reportage attraverso luoghi simbolo della memoria collettiva, FILMography, un esperimento che punta proprio a reinserire, con l’ausilio di immagini che riproducono fotogrammi delle pellicole più celebri, le storie delle quali abbiamo goduto sul grande e sul piccolo schermo nei luoghi esatti in cui hanno trovato ambientazione, restituendole alle proprie origini. Un’opera aperta che, data la vastità del campionario cinematografico e seriale, ha potenziale inesauribile ed invita noi tutti a contribuire ad arricchirla, ognuno con le proprie personali madeleine.

Gabriella Cerbai

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About the author

Gabriella Cerbai

Classe 1983, laureata in Storia e Critica del Cinema e specializzata in Cinema TV e Produzione Multimediale. Appassionata d'arte in tutte le sue forme, collabora con vari progetti di critica, affiancando quest'attività a quella di programmatrice di festival cinematografici e organizzatrice di eventi.

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