Arte e Fotografia

Tano d’Amico, centimetri di pellicola e kilometri di umanità

Storie, racconti, aneddoti della duplice carriera di Tano D’Amico: a Milano la storia per immagini di un fotografo di strada che ha colto l’anima del popolo, delle rivendicazioni, della collera, delle speranze infrante, uccise, calpestate e poi rigenerate.

Appassionata e toccante, divertente e ironica, piena di sorprese l’intervista di Maurizio Garofalo a Tano D’Amico, giornalista filicudaro di origine e romano di adozione, organizzata da New Old Camera e MOOZ negli spazi barocchi dell’Hotel Et de Milan di via Manzoni 29.

Emergono storie, racconti, aneddoti della duplice carriera di Tano: quella di fotoreporter e quella di photo editor. Racconti che di tanto in tanto suscitano qualche risata del pubblico, un pubblico di appassionati di qualsiasi età, tra cui spiccano grandi personalità della fotografia italiana, come nota Garofalo, tutte rigorosamente firmate Leica, tra cui i maestri Gianni Berengo Gardin e Uliano Lucas.

L’intervista apre con una frase introduttiva che può ben riassumere il pensiero di Tano D’Amico: la fotografia come mezzo per spostare il punto di equilibrio della consapevolezza umana. E quale migliore scenario per operare questo mutamento di prospettiva? La strada. Non la strada del viaggio, non la strada della libertà e della scoperta, ma la strada del popolo, delle rivendicazioni, della collera, delle speranze infrante, uccise, calpestate e poi rigenerate. E’ anche la strada dell’abbandono, della sopravvivenza, la strada custode di storie di vite spogliate di tutto, ma ancora piene di passione e di orgoglio. Nessuna posa, nessuna prevaricazione sociale, nessun compromesso, ma la realtà diretta e spontanea.

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È così che ama definirla Tano D’Amico, la fotografia scattata per strada, di strada, in strada: “la stradale”. Termine coniato dal caro collega Caio Mario Garrubba, noto a tutti come il fotografo del comunismo, un altro che come Tano dedicò la sua vita a documentare gli anni intensi delle rivoluzioni, delle lotte politiche e sociali, delle contestazioni giovanili, fra gli anni ’50 e gli anni ’70.

Fino al 1977. L’anno della morte di Giorgiana Masi e del Movimento ’77, che Tano visse in prima persona e di cui immortalò su pellicola volti, sguardi, azioni, violenze, fumo, corpi in tensione, lacrime e sangue. Puro materiale umano che sopravvive oggi in una importante pubblicazione, È il ’77, edita da Manifestolibri, e in centinaia di scatti divenuti immagini-simbolo di quell’anno di piombo, come la famosa fotografia “Uno sguardo (Ragazza e carabinieri)”.

Dunque una professione all’insegna del rischio, della paura, del dolore, eppure condivisa. In primis dagli altri street photographers, che a quel tempo formavano un vero e proprio “branco” non tanto fisico quanto psicologico, dotato di empatia e forte solidarietà, sebbene per Tano un fotografo di strada sia sempre solo di fronte alla realtà e affronti col tempo un cambiamento personale e individuale, indipendentemente dall’entourage professionistico. Una professione condivisa però anche e specialmente da chi accetta di farsi fotografare, come nel caso di alcuni operai di cui Tano aveva saputo conquistarsi la fiducia. Perché il rapporto che si instaura tra il fotografo e il soggetto è un legame sacro, che egli conosce e rispetta profondamente.

Tano D’Amico però non fu solo questo. La sua carriera toccò anche l’editoria, e i suoi reportage vanno dagli anni bollenti delle rivoluzioni ai servizi di denuncia su carceri e manicomi, su rom ed altre comunità ai margini della società. Tra i tanti aneddoti, spiegati con dovizia di particolari e con un pizzico di amarcord, colpisce profondamente il racconto di alcuni rom che Tano fotografò, catturandone le più profonde emozioni e i più reconditi sentimenti, e che quando videro le proprie fotografie stampate, piansero dalla gioia. Tano D’Amico nutre da sempre profondo rispetto per queste realtà: la pubblicazione dal titolo “Ricordi” edita da Fahrenheit 451 (coll. Phaos) raccoglie vent’anni di sue fotografie dedicate alle minoranze e alla loro “ricerca delle proprie immagini”, di un’identità da difendere. Così come “Randagi”, “Espulsi”, “Il Giubileo nero degli zingari”.

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La parte finale dell’incontro è dedicata all’editoria e alle sue partecipazioni nelle redazioni de Il Manifesto e poi de La Repubblica, non senza riportare alla memoria qualche incidente sul lavoro che contribuisce a delineare ancora di più la grande ironia innata di Tano.

Se oggi l’immagine non è libera, non trova posto nella stampa ufficiale, l’unica soluzione è farsi da soli i propri giornali per poter pubblicare senza censure

Questa la conclusione, che cela anche un consiglio alle giovani leve: come egli stesso si sentì dire dal suo primo art director, non c’era posto per Tano D’Amico nella stampa, ma la sua tenacia lo portò ad inventare un pubblico nuovo ed un genere che non esisteva. Lo portò a diventare fotoreporter anche dopo che gli avevano tolto la tessera da professionista. Lo portò a farsi pubblicare un libro dai ragazzi del ’77 che fecero per lui una raccolta fondi spontanea, libro che in seguito Martin Parr avrebbe dichiarato essere uno dei libri fotografici più belli mai realizzati.

Michela Bassanello

About the author

Michela Bassanello

Nata nel mese di marzo del 1990. Ha studiato lingue al liceo e poi Scienze dei Beni Culturali e dello Spettacolo all’università Statale. Dal 2015 lavora come assistente di galleria (da gennaio 2017 per Galleria PACK di Milano) e nel tempo libero scrive online di arte e fotografia.

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