E’ bello ciò che è bello o è bello ciò che è social? La bellezza nelle gallerie di immagini che invadono i vari Instagram e Facebook è un concetto a se stante, che esula dal reale almeno quanto gli stessi social sono solo una deformazione stilizzata e scollata della vita di tutti i giorni. E’ l’estetica parallela di un mondo parallelo.
Negli anni più social mai visti e nell’epoca della glorificazione dell’autoscatto, che da gesto demodè e un po’ “sfigato” cambia nome, “Selfie“, facendosi chic e diventando ossessione e persino materia di studi accademici (oltre che psichiatrici), pare che la bellezza, da intendersi rigorosamente nella sua forma meramente aderente ai canoni del momento, sia realmente alla portata di tutti. Basta un click e un paio di filtri per aderire anche solo vagamente ai più contemporanei stilemi di bellezza. Ma così come queste (presunte) avvenenze sono spesso artefatte e create ad arte, così non esiste un’apparente democrazia in quello che sembra essere il gesto più “democratico” di tutti; quello scatto che parte in ogni istante da milioni di smartphone è anzi una spietata occasione di esibizione del se’ che implacabile sottolinea l’appartenenza o l’esclusione alla selettiva cerchia del “Bello” e dei “Belli“.
La rigida liturgia del selfie prevede forme archetipiche specifiche che non lasciano spazio all’indulgenza dell’imperfezione o dell’interpretazione personale, ne’ margine a quella che è la bellezza secondo una norma universalmente acquisita. La “duck face” ammiccante della soubrettina di turno, che da innaturale e risibile vezzo si è ormai trasformata nella posa più consueta e pacificamente riconosciuta e sdoganata dell’addetto al selfie, diventa grottesca e decadente maschera se indossata dalla goffa ragazzina o dall’anonimo wannabe.
Lastricata di epic-fail è infatti la scintillante via del selfie e dell’esibizione della bellezza a tutti i costi.
Dal filtro alla post-produzione nulla rimane immortalato così com’è, ma tutto viene contraffatto spesso dando vita a vere e proprie distorsioni deformate e deformanti.
Scatti finto spontanei che nascondono ore ed ore di mossette, tentativi e crampi senza pari per ottenere la versione più autocelebrativa di se’ e che finiscono spesso per esibire solo una gamma infinita di recite a soggetto, perlopiù male interpretate.
Finte foto senza make-up, finto stanche, finto stropicciate, fintamente rubate a risvegli mattutini o a sessioni di palestra per immortalare finte bellezze o presunte tali, un esercito di bimbi-minkia fuori target di età e di ogni ceto e posizione che scatta ossessivamente nel “segreto” del proprio intimo per poi, paradossalmente, gettare la propria presunta bellezza in pasto al mondo: le mattonelle dei bagni non erano mai state, loro malgrado, tanto popolari e tanto affini allo sfondo di un quadro almeno quanto gli orizzonti marittimi non erano mai stati così tanto incorniciati dalle gambe di bagnanti alle prese con il più classico dei selfie da spiaggia (una pratica magistralmente parodiata grazie all’ausilio di ironici würstel stagliati su panorami di vacanza).
Qui l’età d’oro dell’edonismo reganiano sembra un’epoca da educande, l’esibizionismo tocca ormai vette inesplorate ed impensate: c’è chi come Kim Kardashian fa del suo fotografarsi ad libitum un’attività maniacale e senza sosta, celebrata anche da una “fatica” letteraria che riepiloga le sue gesta di selfie dipendente e che detta i canoni della bellezza social imponendo ciò che è (appunto) socialmente accettabile e gradevole, e c’è chi non si accontenta di rimettersi all’artificio del filtro, modellando casuali istantanee a colpi di photoshop e generando un dibattito tra innocentisti e colpevolisti come Beyoncé.
Volendo estremizzare, il selfie non spontaneo, ma studiato e ritoccato, è l’evoluzione pop dell’autoritratto del pittore classico: volendo ancora di più esagerare un Van Gogh avrebbe potuto approfittare delle infinite possibilità cromatiche e di stile che i filtri delle numerosissime app dedicate propongono, per infiniti esercizi sulla sua stessa immagine, e non mancano infatti di apparire puntuali e costanti le parodie ispirate ai ritratti più celebri con “Gioconde” ammiccanti armate di cellulare di ultima generazione e smorfia d’ordinanza o “Ragazze dagli Orecchini di Perla” che si scattano selfie senza pudore uniformandosi a quella bellezza che è canone tanto lontano da quello che è stato il canone.
La volontà è quella di cercare di assomigliare il più possibile all’immagine di sé più somigliante, a quelli che sono i prototipi della bellezza social, in un cortocircuito senza fine e destinato a perpetrarsi e ad esasperarsi senza soluzione di continuità.
Fu vera gloria? Ai like l’ardua sentenza…
Gabriella Cerbai
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