Il 22 luglio del 2020 è stato rinvenuto a Berlino il corpo senza vita dell’artista inglese Saul Fletcher. La causa del decesso sarebbe stata suicidio. L’artista si sarebbe tolto la vita dopo aver ucciso la propria compagna, la curatrice e storica dell’arte Rebeccah Blum.
Una tragedia per cui non trovo parole. Mi sento inadatto. Ogni logica possibile ha abdicato al vuoto. Sconforto senza fine. La Fondazione Pinault ha deciso di disallestire l’opera Don’t let the darkness eat you up di Fletcher dalla mostra in corso Untitled 2020. Due settimane prima la gallerista londinese Alison Jacques aveva rimosso ogni riferimento all’artista inglese dal sito web della galleria per “esprimere solidarietà a tutte le donne oggetto di violenza”. Scelte lecite, emotivamente corrette, forse troppo sbrigative? Difficile entrare nel merito. Sicuramente schermaglie di polemiche su drammi di questo tipo sono inopportune e disarmanti. Fuori luogo i titoli di alcuni quotidiani, soprattutto on line, del calibro: “Morto Saul Fletcher: l’artista amico di Brad Pitt – uccide la compagna, fugge in Porsche e poi si suicida”, oppure: “Uccide la compagna e poi si suicida: l’assurda storia dell’artista Saul Fletcher, amico di Brad Pitt”, e ancora: “Ennesimo caso di femminicidio, l’omicidio-suicidio di Saul Fletcher. Se questa è arte.”. L’unico intervento che risulta aderente è il breve approfondimento di Dario Pappalardo sul quotidiano La Repubblica del 2 settembre 2020, dal titolo “Il filo che lega l’autore alle sue creazioni” che invita a valutare l’opera dell’artista inglese nella distanza. Ci vuole tempo, questo l’incipit dell’equilibrato articolo del giornalista di La Repubblica.

Fletcher era ossessionato dalla fissità della fotografia, dalla sua rigidità ma allo stesso tempo dal disequilibrio, dall’ordinare il caos e trovare una timida luce nella rappresaglia di segni, oggetti, parole, frammenti di disegni, che non quadravano mai. Il frammento scomposto nel tempo si faceva spazio nei suoi scatti nonostante tutto. Un tentativo estenuante. Radicale. Il ritrarsi spaventapasseri vacante, in croce nella perenne rappresentazione irregolare degli arti. Nelle composizioni di Fletcher sono spesso presenti arti fantasma, membra che anonime attraversano l’inquadratura, protesi improbabili, stampelle. Sostenere il peso senza riuscirci mai del tutto. L’inadeguatezza non attende conferme in questo mondo crudele. E il tormento viaggia silenzioso dalla disperazione dei giorni alla sovrascrizione di parole abbandonate, tratteggi incerti, simboli infantili, macchie colanti, fermati in una composizione che non torna, non riesce, che disobbediente si scompone, rompe i bordi, quasi un fiume in piena. Eppure un ordine impera nei lavori di Fletcher, un ordine nascosto, arreso, instabile e operativo. Il rimando immediato è Francesca Woodman, sensibilità analoga, ricerca ossessiva di un certo tipo di inquadratura, di temperatura della luce, per non parlare dell’autoritratto insistito e negato. Tentativi di mettersi in luce, di trovare un cardine che possa mantenere l’andamento di un’esistenza in balia dei propri demoni.

La memoria è qualcosa di lacustre e torbido. Ambivalente, il suo effetto stride con la considerazione consolatoria. Il passato è in gran parte un’invenzione dei viventi affermava W. Burroughs, aggiungendo che il tempo è qualcosa che finisce. Nelle opere di Fletcher la messa in posa è una resa incondizionata, in cui il potere evocativo delle cose marcisce nella claudicante ricerca di un segno che possa significare, connettere, dare un senso ultimo. Un incontro scomposto tra la malinconia di alcuni lavori di Lawrence Caroll e certi “scarabocchi” sublimi di Cy Towmbly. Senza compiacimento alcuno. In tempi feroci come quelli in cui viviamo ciò che rimane ci impone di colmare un vuoto e ci parla di noi anche nella distanza, soprattutto nell’assenza. Il rumore di fondo dei giorni che passano è rappresentato dalla foresta di segni, macchie, oggetti d’uso comune incrostati e opachi, quasi fantasmi emanati dal muro della stanza-studio. Fletcher cercava di realizzare veri e propri fermo-immagine di processi alchemici improbabili. Lavori che rammentano lasciti di rituali insondabili, pagani ed ermetici. Contro-moderni, angoscianti, spesso lasciano interdetti. Quasi ad interpellare le ombre, a dialogare con ciò che sfugge, ciò che non riusciamo a percepire definitivamente nel chiasso giornaliero del flusso d’immagini a cui siamo sottoposti.

Forse anche per questo emerge un isolamento determinato e indicativo. Il suo. Quello dei suoi soggetti. Respingente senza alcun dubbio. Senza intimità. Un isolamento che appare in gran parte dei lavori di Fletcher come un canto al vuoto. Una resa incondizionata alla natura capricciosa dell’invisibile, dopo una lunghissima ed estenuante battaglia contro tutto e contro tutti, soprattutto contro se stesso. Still life. Untitled. Capitolazione impossibile da occultare. Che capovolge, mette a soqquadro, ostenta e smarrisce il dominio della sua natura stessa. Si apre così uno scenario che traduce le cose in una rivelazione marcita. Uno spazio separato, in cui l’esigenza è rigore e il tempo è una colpa. Scriveva Maurice Blanchot nel suo Lo spazio letterario: l’arte è anzitutto la coscienza dell’infelicità, non la sua compensazione. Descrive la situazione di colui che si è perduto, che non può più dire “io”, che nello stesso movimento ha perduto il mondo, e appartiene all’esilio, a quel tempo dell’angoscia in cui, come dice Hölderlin, gli dei non sono più e non sono ancora.
Fabrizio Ajello
In copertina: L’installazione Don’t let the darkness eat you up di Saul Fletcher a Punta della Dogana
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