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Ritorno a Twin Peaks, un anno dopo

Il Ritorno a Twin Peaks compie quasi un anno, ma non si può archiviare facilmente un fenomeno estetico ed artistico di tali proporzioni, è necessario ancora riviverlo, interrogarlo, sviscerarlo. A quasi un anno dal debutto-evento torniamo, è proprio il caso di dirlo, sul luogo del delitto, per fissare qualche immagine e qualche suggestione a mano libera. Ancora una volta, bentornati a Twin Peaks, perché, come Dorothy insegna, “There’s no place like home”

Nessuno come lui, nessuno prima di lui. Più che troppo avanti semplicemente in un’altra dimensione. David Lynch è un unicum inarrivabile ed il primo Twin Peaks, sua creatura mitica, è la perfetta sintesi di un avanguardismo peculiare e connotativo non replicabile in campo cinematografico in generale ed ancor più nel seppur fulgido panorama delle serie tv. Anche la sua ultima creatura non fa eccezione, reggendo qualsiasi confronto obbligato, valicando addirittura quei vasti confini che il primo Twin Peaks aveva tracciato già stressando, negli acerbi e naif anni ’90, il comune senso narrativo della serialità.

Proprio in questi giorni si è celebrato il 28esimo dalla prima messa in onda, ce lo ricorda anche una pubblicità d’antan made in USA: “Twin Peaks – the series that will change TV”. Mai nessuna campagna fu più profetica e lungimirante. Mai nessuna serie ha imboccato sentieri estetici e concettuali simili o assimilabili

Ma con la giusta distanza ed acquietato l’effetto dell’euforia da evento, cosa resta dell’incredibile ed insperato ritorno? “E’ già passato un anno ed è un incendio che mi brucia l’anima!” per dirla con un celebre Modugno, perché pensato a distanza questo “nuovo” Twin Peaks rimane l’assoluto capolavoro che l’eccitazione dell’attesa non ha di una virgola edulcorato o esaltato, ma si rivela anzi ancora più denso, fitto, intenso di quanto apparso ad una prima lettura a caldo, interpretabile ad infiniti livelli.

Il distacco e la continuità. Questo Twin Peaks è innanzitutto un compendio, “lo cunto de li cunti” dell’intera esperienza lynchiana, ben più che in sterile linea di continuità con il suo predecessore, è molto più largamente il “Manifesto” del regista del Montana in una prospettiva quanto mai ampia, riuscendo, allo stesso tempo, nella più che ardua impresa di “uccidere il padre”, emancipandosi da un fardello importante, da una sorta di santino da cui sembrava quasi impossibile affrancarsi, e acquisendo una propria identità forte e caratteristica.

Tutto questo, questa forte affermazione dell’opera, paradossalmente ed ironicamente, si ottiene esasperando proprio il tema già cardine del disorientamento e della conseguente ambiguità identitaria rendendolo il macro-tema che tutto permea e tutto muove.

La perdita dell’IO di questo Cooper, la sua grottesca moltiplicazione in tanti altri da se’ è, nell’ottica dell’epitome che il Ritorno a Twin Peaks rappresenta, come lo smarrimento della coscienza di Betty in Mullholland Drive, come lo spaesamento di Henry in Eraserhead, come lo sconvolgimento di Fred in Strade Perdute. La consapevolezza dell’autentico che si sfalda e del relativismo del reale. Qual è il vero Cooper tra Evil Cooper, Dougie Jones, Mr. Jackpot? Quale universo è quello reale, quello dentro o fuori la fatidica scatola blu? Davanti o dietro il radiatore con il suo teatrino popolato di mostruosi freak? E’ Laura Palmer o Carrie Paige (o, tornando a l’originario I segreti di Twin Peaks, è forse invece Maddy Ferguson?).

Sfrondando questa lettura dall’ulteriore livello del citazionismo rivolto all’esterno e alle opere terze, (Il Mago di Oz come evidenza su tutte) si può serenamente affermare che c’è molto più del Lynch cinematografico in questo Twin Peaks di quanto non vi sia Twin Peaks stesso, intendendo quello “originale”.

Per rafforzare la connessione di questa specifica opera con la propria produzione in senso esteso Lynch si affida inoltre ad un infinito parterre di interpreti, tutti a vario titolo a lui connessi concretamente o ideologicamente, dal quale emergono senza dubbio alcuno Naomi Watts e Laura Dern, muse e clichè dell’opera lynchiana che, in questo infinito avvicendarsi di maschere e alter-ego, sono due facce della stesso assillo, entrambe omaggiate del proprio ruolo perfetto, la prima che rivive in chiave tragicomica ed a parti inverse il totale straniamento della perdita d’identità già sperimentata drammaticamente ed in prima persona in Mullholland Drive, la seconda che unica tra tutte può incarnare la magnifica ossessione Diane, l’enigma che si rivela in un gesto che sa di vera epifania, di completamento, di tassello mancante finalmente ricollocato.

Diane è, in questo continuo toccarsi ed intrecciarsi dei piani dimensionali e di lettura, tutto ciò che forse ci dovevamo, ma non ci potevamo aspettare, perfetto opposto dell’idea che eravamo stati portati ad avere di lei, nel suo essere semplicemente, e per la prima volta, se stessa senza essere mediata da uno sguardo terzo. Da interlocutrice passiva di Cooper dalla natura quasi mitologica e silente, a soggetto volitivo ed aspramente controverso, sboccato, rude, aggressivo e dominante. Ma lo capiremo, nell’infinito gioco delle parti, che neanche quella è la vera Diane e ancora una volta saremo chiamati a rimettere in discussione la percezione del reale.

 

 

 

 

La moltiplicazione dei livelli di Twin Peaks, ma soprattutto di questo Twin Peaks, va dunque di pari passo con l’infinita moltiplicazione dell’io. Come l’universo descritto dall’Inception di Christopher Nolan, come in una casa di specchi di quelle da Luna Park che moltiplica l’immagine, la deforma, la ingrandisce, la mortifica, la esalta. La pervasività inquietante del “doppelganger” ed il “perturbante” freudiano, quello sgomento che ci pervade quando l’immagine che ci spaventa racchiude in se’ anche la nostra è, l’abbiamo detto, fil rouge di tutta l’opera.

 

 

 

 

E gli specchi, quelli fisici e concreti, sono infatti presenti in modo puntuale ed ossessivo (solo attraverso l’immagine riflessa si disvelano ad esempio gli stratificati piani della personalità multipla di Cooper, come già avvenuto sul finale della seconda stagione), così come protagonista simbolica è da oltre 25 anni l’immagine incorniciata, perfetta ed archetipica, di una Laura Palmer reginetta del ballo, che mai si infrange se non nel disperato delirio finale di Sarah Palmer e nel volto di Carrie Paige che urla l’inesistenza della stessa Laura nel climax conclusivo. “Is this the past or is this the future?, ma sarebbe meglio forse dire con una facile citazione musicale ”Is this the real life, is this just fantasy?

Anche lo “scenario Twin Peaks” inteso come luogo in cui la vicenda si dipana, può divenire in questo relativismo “non luogo” perdendo la centralità geografica del racconto alla luce di questo assoluto relativismo e di questa intrinseca precarietà del reale, non nel senso comune che Marc Augè attribuisce al termine, ma più inteso come concetto, come prototipo, perché superato come realtà fisica, reso topos, cristallizzato, immobile, immutabile, fermo ed immarcescibile. Tutto è rimasto al suo posto, nell’imperturbabile isolazionismo di quello spicchio di realtà periferica statunitense. Il Double R Diner, Lucy ed Andy, Ed, Hawk, il Dott. Jakoby, la Sig.ra Ceppo, tutto è naturalmente stagionato, ma rimasto dove e come ci aspettiamo di ritrovarlo, ma soprattutto lo è il male, il cancro che soggiace e che marcisce sotto le sue fondamenta e che in una delle sequenze più immaginifiche ed antologiche capiamo essere ineluttabile perché intrinsecamente legato a Laura e quindi a Twin Peaks.

Questa forte tipizzazione, ma anche l’universalismo che lo contraddistingue, rende Twin Peaks un microcosmo concettuale, un cliché replicabile all’infinito, ricollocabile in X luoghi e per X volte. E’ la matrice, ed è per questo che tutto è lì ricondotto, ma è da lì che il racconto può muoversi e collocarsi in altri luoghi, siano questi la New York claustrofobica che apre questa terza stagione, o la Las Vegas che accoglie la tragicomica epopea di Dougie Jones.

Tutto è dove dovrebbe essere 25 anni dopo a Twin Peaks, ma con delle note stonate, come quando si rientra da un lungo viaggio e non si ritrova più un oggetto, una foto incorniciata, che per anni è stata lì, in bella mostra sul caminetto del salotto, (quella di Laura) ed un senso di dissonanza e di frustrazione ci attanaglia. Twin Peaks è ormai uno “state of mind” e non più unico focus della storia, almeno quanto Laura non sembra ormai che essere una immagine sbiadita e pretestuosa parimenti replicabile come concetto, come vittima sacrificale del male in senso assoluto e non specifico.

Ad enfatizzare ulteriormente il disorientamento ci sono i molteplici registri narrativi che si avvicendano senza sosta, si mescolano e si alternano come da perfetto modus operandi lynchiano. Ognuno di questi viene trattato all’ennesima potenza del se’, portato all’estremo con picchi assoluti di scrittura nel profondamente solenne o nell’intensamente ludico.

Tra gli highlights del registro melodrammatico l’ultra-violenza del figlio di Richard Horne, la morte intuita della Sig.ra Ceppo, la commozione esibita del redento Bobby; assolutamente ascrivibile al grottesco ad esempio l’episodio di Mr. Jackpot, ma anche quello che mette in luce il rapporto paradossale tra una rediviva Audrey e quello che scopriamo essere il marito; all’orrorifico quello di Ike “the Spike”, ma anche il continuo ricorrere all’esibizione del corpo mutilato e decollato, la tentata uccisione di Evil Cooper ad opera di Ray Monroe e la danza dei demoni che lo riportano in vita; al magnifico-onirico risponde la monumentale sequenza di apertura del terzo capitolo, un esempio di cinema sperimentale di inarrivabile suggestione, il suo naturale proseguo nell’ottavo capitolo con Philip Jeffries ridotto a stufa fumante e la sequenza da antologia della bomba atomica, che con le altre immagini di questi “innesti”assume un apparente connotazione anti-narrativa derivata dal primo Lynch di Eraserhead, e alla sua attività artistica in senso lato, di ottimo pittore e fotografo oltre che di cineasta (salvo poi rivelarsi fondamentali per la comprensione di tutta la vicenda dagli albori ad oggi).

Ed infine al ricchissimo registro comico e surreale afferiscono uno stuolo di personaggi e di situazioni di godibilissima scrittura: l’apparire insensato del figlio di Lucy ed Andy, Wally Brando, i Mitchum brothers con Sandie, Mandie e Candie, Dougie Jones, Jerry disperso nel bosco in preda alle allucinazioni per un infinito lasso di tempo, ma soprattutto e sopra tutti lo stesso Lynch nei panni di Gordon Cole con il suo apparecchio acustico ed i suoi vizi insospettabili a cui un magistrale Albert guarda con sconsolata rassegnazione. Questa sua presenza ingombrante, insistita e per nulla defilata, inusuale se comparata con quello che era stato poco più di un semplice cameo nel precedente Twin Peaks e nel prequel-sequel Fuoco Cammina con me, ribadisce con prepotenza la natura auto-dichiarata di deus ex machina, di lupus in fabula costantemente chiamato a rispondere delle proprie affabulazioni, unico fautore di un destino e di un progetto ambizioso ed ostico ad una interpretazione lineare. Questo Twin Peaks, lo ribadiamo è il frutto di una carriera e di una suggestione quarantennale, un bignami della sua poetica.

E’ la sua creatura, il suo mostro di Frankenstein, la rete intessuta con i fili logici ed illogici di mille discorsi, che ci intrappola nel suo immaginario come se fossimo serenamente addormentati ed invischiati in uno dei suoi “Monica Bellucci dream”.

Per approfondire https://cinephileblogspot.blogspot.it

Gabriella Cerbai

About the author

Gabriella Cerbai

Classe 1983, laureata in Storia e Critica del Cinema e specializzata in Cinema TV e Produzione Multimediale. Appassionata d'arte in tutte le sue forme, collabora con vari progetti di critica, affiancando quest'attività a quella di programmatrice di festival cinematografici e organizzatrice di eventi.

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