La Galleria Il Ponte, inaugura una mostra di Renato Ranaldi in cui vengono presentati tre nuclei di opere di periodi diversi. Si parte, cronologicamente, dagli Angolari (1973-74) installati al piano interrato della galleria, lavori in cui l’accostamento di due tele crea un angolo che funziona come una quinta teatrale, dove gli oggetti che fanno da protagonisti – reali o rappresentati – sembrano sovvertire e mettere in crisi la canonica bidimensionalità del supporto pittorico in favore dell’invenzione di una spazialità non convenzionale.
l primo piano, invece, le pareti sono “tappezzate” di disegni in nerochina su carta, una selezione fra i trentadue Scioperíi raccolti nel libro omonimo, insieme ad un racconto dello stesso Ranaldi e ad una postafazione di Bruno Corà, pubblicato dalle edizioni Gli Ori nel 2016, che verrà presentato da Bruno Corà, Marco Meneguzzo e Angelika Stepken lo stesso sabato 19 novembre al Museo di Antropologia ed Etnografia di Firenze. In queste carte l’artista ha tratto una propria modalità linguistica dagli oziosi e spensierati disegnini o schizzi (denominati appunto “scioperíi”) che si articolano, in modo “burlesco”, ai margini della pagina. Questo, che potrebbe apparirci come un bizzaro termine d’invenzione, è riportato – come testimonia Bruno Corà in una lettera a Ranaldi – in un manuale di restauro ad indicare quei disimpegni grafici, fatti per gioco, a margine, commisti alla parte progettuale della sinopia e ai margini di codici e scritti notarili. Come l’artista afferma «…ho deciso per il testo biblico della pagina bianca che si lascia inquinare solo da segni come folgorazioni, razzi illuminanti ai suoi margini: gli scioperíi…
La frequentazione delle regioni dubbie, rischiose, del mio cervello, trappole alle quali non so sottrarmi, è l’origine degli scioperiìi. Sono riverberi di pensieri resuscitati, chiedono venga risolto l’enigma che loro stessi hanno prodotto e non sanno sciogliere».
All’ingresso in galleria, dalla parete di fondo, si apre allo sguardo una grande opera creata appositamente per questa esposizione: Contenzioso (2016). Due tele bianche della medesima dimensione sono messe in relazione e unite da ciò che il titolo stesso dell’opera ci suggerisce essere l’oggetto di un contenzioso: un agglomerato policromo informe di colore ad olio. Ecco l’ennesimo sberleffo di Ranaldi alla centralità costitutiva dell’opera d’arte, un decentramento, uno spostamento a margine dell’attenzione e della narrazione.
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