Arte e Fotografia

Pittura impressionista e fotografia

Il rapporto così stretto e intenso tra la pittura impressionista e la fotografia è imprescindibile: oltre a svilupparsi nello stesso periodo, uno dei più innovativi e creativi nella storia della cultura, queste due arti si caratterizzavano per il medesimo interesse primario, ovvero il trattamento della luce nella creazione di immagini.

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Nel suo nuovo seminario presso la Terza Università di Roma, il 10 dicembre scorso, Patrizia Genovesi ha regalato una vera e propria lezione di storia dell’arte dall’approccio insieme rigoroso e innovativo. Nota fotografa e formatrice nel campo delle arti visive, Genovesi sfrutta la sua vasta cultura artistica e tecnica per mettere in relazione fenomeni e concetti in apparenza lontani, creando collegamenti sorprendenti. E’ il caso del rapporto tra la pittura impressionista e la fotografia: due arti con un grandissimo debito l’una verso l’altra.

Genovesi parte dalla teoria del colore. L’impressionismo si sviluppa in Francia nella seconda metà del XIX secolo sulle teorie di Goethe, Schopenhauer e soprattutto Chevreuil. Eredi delle esperienze di grandi maestri come Michelangelo, Tiziano, El Greco, Caravaggio, Rembrandt, ma anche della sperimentazione dei britannici Constable e Turner, più vicini nel tempo, gli impressionisti furono straordinari innovatori capaci di usare il colore in un modo rivoluzionario, che valorizzava la luce con una potenza sconosciuta.

Questi pittori estraevano dalla tavolozza i colori “puri”, o saturi. Questi hanno la massima brillantezza:  riflettono esclusivamente le radiazioni luminose del loro colore e assorbono totalmente le altre; i miscugli, al contrario, assorbono le diverse radiazioni in misure diverse, risultando in sfumature più smorte.

Nella loro arte, i toni chiari contrastavano con le ombre complementari, gli alberi prendevano tinte insolite, come l’azzurro; il nero veniva quasi escluso in favore delle sfumature del blu più scuro o del marrone. Ogni cosa, perfino la neve e l’aria, aveva un colore. Quello tipico delle ombre era il violetto, complementare del giallo nella luce solare.

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Gli impressionisti impararono a sfruttare l’attitudine dell’occhio umano a decodificare le immagini utilizzando i dati dell’esperienza, associando e percependo colori anche dove non ci sono. Essi dissolsero le macchie cromatiche in punti di colore puro,  sostenendo che i colori dovevano mescolarsi solo nell’occhio dell’osservatore. Grazie ad una sperimentazione infaticabile e ad un continuo confronto tra le diverse esperienze, essi impararono ad utilizzare colori “puri” organizzandoli in linee, macchie, puntini, lasciando all’occhio dello spettatore il compito di creare le tinte intermedie; in questo modo massimizzarono la brillantezza dei colori senza perdere nulla della fedeltà dell’immagine.

La fotografia, nuovo miracolo della tecnica creato all’incirca negli stessi anni, non poteva che attrarre spiriti così attenti all’innovazione nel trattamento della luce. Genovesi ha documentato l’utilizzo di fotografie come modelli da parte di pittori come Gauguin, Cézanne, Toulouse-Lautrec, Degas, Van Gogh. Ed è interessante notare che mentre i pittori impressionisti venivano derisi e sbeffeggiati dalla critica, la loro prima esposizione ufficiale fu allestita, nel 1874, proprio nello studio di un fotografo, il ritrattista Félix Nadar.

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La fotografia si proponeva agli impressionisti come uno strumento efficacissimo per studiare, innanzitutto, la composizione delle scene. La capacità della fotografia di “fermare” le scene da ritrarre era un elemento di grande importanza per artisti che dipingevano quasi sempre all’aperto e che quindi erano condizionati dal cambiamento continuo delle condizioni di luce.

Inoltre la fotografia (inizialmente solo in bianco e nero) forniva al pittore una grandissima quantità di informazioni sul comportamento della luce nel passaggio da una tonalità all’altra e sulla reale intensità luminosa delle diverse colorazioni, che spesso ingannano l’occhio. Ad esempio il sole dipinto da Monet nel famoso “Impressioni all’alba”, che sembra saltare fuori dalla tela con il suo rosso fuoco, se “virato” in bianco e nero dimostra invece di possedere una luminosità non superiore a quella delle grigie nubi circostanti.

Sul fronte opposto operavano fotografi straordinari, come Stiegliz, Arning, Misonne, Proessdorf, Perscheid, Job, Hudson White, Kaesebier. Impegnati nello sviluppo dei canoni di un’arte integralmente nuova, essi si ispirarono alla pittura impressionista per definire le inquadrature e le modalità di composizione delle immagini. Genovesi ha mostrato un campionario di immagini tanto straordinarie quanto poco note, in cui l’influsso della pittura impressionista è così evidente che si fatica a capire se siamo di fronte ad un quadro o ad una fotografia.

Questa confusione dell’occhio raggiunse il suo apice quando nel 1907 i fratelli Lumière, recenti inventori del cinema, svilupparono l’autocromia, una tecnica che consentiva di creare immagini a colori applicando un “filtro” a base di fecola di patate su un materiale fotosensibile. Fotografi come Lartigue, Personnaz, Kuehn utilizzarono questa tecnica per produrre immagini di grandissima qualità, capaci di rivaleggiare con quelle dei pittori a loro contemporanei (e certamente con quelle di moltissimi fotografi di oggi).

A ben pensarci il rapporto così stretto e intenso tra la pittura impressionista e la fotografia non dovrebbe sorprendere: oltre a svilupparsi nello stesso periodo, uno dei più innovativi e creativi nella storia della cultura, queste due arti si caratterizzavano per il medesimo interesse primario, ovvero il trattamento della luce nella creazione di immagini. Purtroppo invece siamo vittime di un metodo di studio costruito per categorie chiuse e tra loro separate, al quale dovremmo ribellarci perché è falso e ci impedisce di cogliere la dinamica con cui la cultura evolve. L’arte, così come la scienza, si sviluppa nel confronto, grazie ad intelligenze capaci di valorizzare stimoli provenienti da tutti i mondi di creatività disponibili.  Quando si incontra qualcuno in grado di proporre un metodo di studio che scardina queste distinzioni artificiose possono nascere momenti di vera cultura.

 Sara Riga

About the author

Sara Riga

Da sempre appassionata di arte e cultura contemporanea, si è laureata alla facoltà di Lettere e Filosofia di Firenze. Scrive, viaggia, legge, ascolta musica e tiene gli occhi ben aperti su tutto ciò che la circonda.

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