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Outer Space: 11 project space indipendenti

Là, nello stesso luogo in cui un tempo si riunivano i Futuristi a Milano, oggi 11 project space si presentano in un progetto articolato, Outer Space, visibile fino al 22 aprile 2017. Sulla scia dell’osservazione della scena artistica indipendente, MEMECULT non poteva farsi sfuggire l’occasione di approfondire l’iniziativa: abbiamo incontrato la curatrice, Ginevra Bria, e il direttore artistico, Atto Belloli Ardessi

Un format inedito per Milano, proprio nelle settimane a cavallo tra miart e Salone del Mobile, si propone di indagare le realtà indipendenti dell’arte in Italia. All’interno della palazzina Liberty di Futurdome, storicamente sede degli incontri degli ultimi futuristi negli anni Quaranta, si insediano 11 spazi indipendenti selezionati tra i più attivi in Italia: Almanac (Torino/Londra), Current (Milano), Gelateria Sogni di Ghiaccio (Bologna), Le Dictateur (già interno a FuturDome), Mega (Milano), Site Specific (Scicli), T-space (Milano), Tile Project Space (Milano), Treti Galaxie (Torino) e Ultrastudio (Pescara) accompagnati dall’intervento ambientale Refuge in Case of Tropical Storm a cura di ATZ Agreements to Zinedine al primo piano del palazzo, concepito come spazio calmo e zona di consultazione.

Ultrastudio, installation view, ph. A. Belloli Ardessi, courtesy Isisuf

Giulia Meloni: Com’è nata l’idea di Outer Space? Da quanto tempo ci state lavorando?

Atto Belloli Ardessi e Ginevra Bria: Dopo aver assistito a progetti, tra gli altri, come la Zurich Art Space Guide, oppure The Future is Self-Organized a Limerick, nonché ad Artissima Lido, abbiamo ritenuto che anche a Milano, fosse necessario presentare una mostra curata, totalmente inedita, dedicata a riunire in dialogo dieci spazi indipendenti italiani e a presentare alcuni progetti speciali che le unissero.
A Milano, invece, in FuturDome, a seguito del progetto espositivo di The Habit of A Foreign Sky, inaugurato a fine settembre 2016, l’urgenza è stata quella di riportare identità scelte, selezionate, in dialogo, dando vita ad una nuova comunità. A partire da questo slancio congenito, intrinseco anche alla storia del palazzo, abbiamo deciso di indagare il ruolo di artist-run space e curator-run space italiani per presentarne una panoramica diffusa, contagiosa e finalmente lucida su pratiche, ricerche e approcci dedicati ad aderire ad una sfida, al rivelarsi di alcuni, selezionati, spazi indipendenti di ultima generazione. Vorremmo che Outer Space rappresentasse una vista in movimento su realtà che non solo si auto-sostengono e si auto-organizzano, ma che lavorano nel profondo, con assoluta certezza, credendo e lottando contro disfattismi e disgregazioni, senza sosta. Sorgenti di una programmazione ben delineata, generativa ed esplorativa, pronti ad esistere sperimentalmente, piuttosto che a far parte di sagome, di mosaici, di immagini fisse su entità, per antonomasia, in evoluzione.

Gelateria Sogni di Ghiaccio, installation view, ph. A. Belloli Ardessi, courtesy Isisuf

G.M.: In che modo è avvenuta la selezione degli spazi e la seguente ripartizione dei locali all’interno di Futurdome?

A.B.A.-G.B.: A partire dal 27 marzo, FuturDome si costituisce. Prende forma a partire dalla forma di chi lo plasma, di chi lo abita e, infine, risiede dall’interno. Outer Space, percorso espositivo dedicato a undici entità indipendenti italiane, aderisce alle pareti di FuturDome, attraversandolo e definendolo in qualità di assemblea, come un’agorà che trova posto, che diventa luogo, affermando uno spazio costituito da altri spazi. Per questo motivo abbiamo utilizzato la sezione orizzontale del palazzo, insediando il piano terra e il piano -1: fasce che ci hanno permesso di definire dieci aree, dieci unità; misura minima di dispersione all’interno dei 2000 mq  di FuturDome. Inoltre abbiamo deciso di inserire uno special project a cura di Agreements to Zinedine, al primo piano, per costituire un ambito di consultazione e un momento di sospensione, di tranquillità, alla fine del percorso.

Seguendo alcuni parametri, come: l’anno di fondazione (tra il 2012 e il 2013, periodo in cui la crisi economica attenua l’annichilimento dei riferimenti culturali italiani); come la cadenza espositiva, programmatica e costante; e come la capacità di innovare le pratiche di interazione, di progettualità con artisti emergenti -oppure già affermati-, FuturDome seleziona e accoglie undici unità. Consequenzialmente Outer Space recupera, rilancia il pensiero di attraversamento dello spazio a disposizione, provocando quel vuoto profondo, solo a tratti inesistente, che sembra interporsi sempre troppo vivo, solido tra le verità istituzionali del mondo dell’arte italiana.

Outer Space si forma come luogo diventato territorio, come un piano di contenuto che presenta l’utilizzo di metodologie di processo e possibilità sperimentali, talvolta effimere, nel lavoro artistico e nella dimensione critica di universi applicati all’arte. Outer Space mostra sentori scelti e frammenti riuniti di un dialogo, di un messaggio collettivo, attraverso un approccio talvolta inter-generazionale e talvolta intra-generazionale.

Treti Galaxie, installation view, ph. A. Belloli Ardessi, courtesy Isisuf

G.M.: Outer Space si propone come “uno spazio di scoperta, sperimentazione e ricerca sull’arte contemporanea attraverso dieci fra i più attivi project space in Italia”; c’è la volontà di rispondere a quella che hai individuato come un’esigenza, coprire quella zona grigia tra il mondo accademico/universitario e il sistema established dell’arte?

A.B.A.-G.B.: Riteniamo che il titolo rappresenti la metafora migliore per ritrarre il progetto. Outer space è una formula utilizzata in astronomia per indicare lo spazio profondo, un involucro sempre più esterno. Un vuoto cosmico esistente tra i corpi celesti, esplorati e non, inclusa la Terra. L’outer space, per gli astrofisici, non è mai completamente vuoto, ma consiste in un’assenza tangibile di materia, all’interno della quale vengono generate particelle a bassa densità. Parmenide, nel 500 A.C., dimostra ontologicamente l’impossibilità dell’esistenza del vuoto nello spazio, determinando il concetto occidentale, millenario e millenaristico, di horror vacui. Teoria secondo la quale il nulla non esiste e dunque quel che sta oltre il cielo non può essere inconsistente, cavo.

Nei secoli, outer space diventa espressione propria a Cartesio, passando attraverso scrittori come Humboldt e poeti come Milton, per arrivare a William Gilbert. Il filosofo inglese sostiene l’idea che le stelle sono visibili a noi solo perché circondate da un etere sottile, oppure da vuoto lineare.

La moderna teoria dell’esistenza di un outer space, invece, si basa  sulla cosmologia del Big Bang, proposta inizialmente nel 1931 dal fisico belga Georges Lemaître.

ATZ, installation view, ph. A. Belloli Ardessi, courtesy Isisuf

Questa teoria sostiene che l’universo osservabile trae origine da una formazione molto compatta che da allora subisce un’espansione continua. A partire da quel momento, la materia rimasta dopo l’ampliamento iniziale ha subito il collasso gravitazionale creando così stelle, galassie e altri oggetti astronomici, lasciando dietro di sé un vuoto intenso che forma quello che oggi è chiamato spazio profondo. La dimensione di un outer space è dunque l’approssimazione naturale più vicina ad un vuoto perfetto, ma resta un’assenza parziale. All’interno di FuturDome, Outer Space, durante i giorni di miart, si propone di rappresentare, per i pubblici internazionali che attraverseranno Milano, tramite e materia di un’esplorazione. Spazio di scoperta, sperimentazione e ricerca sull’arte contemporanea, approfondito attraverso undici progetti inediti, proposti da undici fra i più attivi spazi indipendenti in Italia. A dimostrazione del fatto che, nell’universo di oggi, il vuoto apparente, il vuoto visibile tra istituzioni culturali e gallerie commerciali, non consiste in una vastità, in un vuoto assoluto, ma nel processo generativo di realtà in espansione, che oggi danno origine a stelle tangibili a galassie non ancora abbastanza esplorate.

Almanac, installation view, ph. A. Belloli Ardessi, courtesy Isisuf

G.M.: Le realtà invitate a partecipare al progetto sono molto eterogenee, non solo a livello di concept e di struttura ma anche perché sono frutto delle nuove collaborazioni e assetti tra operatori del settore: artisti e curatori. Stiamo infatti parlando di un progetto che accoglie 43 artisti e ben 21 curatori (praticamente la metà). Un dato interessante da rilevare. Come ha influito (se ha influito) sulle dinamiche del progetto?  

A.B.A.-G.B.: L’obiettivo, fin da principio, era quello di dar vita a una mostra curata, non a una kermesse del non-profit oppure ad una mini-fiera delle entità indipendenti. Dunque è stata non solo necessaria la presenza di altri curatori, ma ha rappresentato anche una forza inestimabile, per riuscire a conferire un’integrità alle molteplici unità di cui Outer Space è composto. Personalmente, durante la revisione dei progetti, il momento dell’incontro con ciascuno dei fondatori –tanto artisti quanto curatori – ha comportato un arricchimento e un approfondimento mai provato prima. Abbiamo lavorato con loro e per loro, diventando testimoni, talvolta, di inversioni tra le parti, attraverso la messa in opera di processi, pragmatiche, narrative e strutture del pensiero che si sono formati a partire da un confronto diretto e da un avvicinamento decisamente più complice, più partecipe alla molteplicità di legami tra visioni artistiche e sguardi curatoriali. Dando così vita a un piano reale di rinnovamento critico.

Tile Space, installation view, ph. A. Belloli Ardessi, courtesy Isisuf

G.M.: Queste realtà che, come hai sottolineato, si trovano spesso in zone periferiche, corrono il rischio di rimanere chiuse in una nicchia; radunarle tutte in uno stesso luogo, forte di un passato storico e artistico importante, al centro di Milano, durante le settimane del miart e del Salone del Mobile, è sicuramente una svolta a livello di visibilità. Allo stesso tempo non si vuole qui parlare di vetrina, piuttosto di uno spazio di dialogo, collaborazione e contaminazione. Come si è lavorato per incanalarsi in questa direzione?

A.B.A.-G.B.: La maggior parte degli spazi invitati ha inaugurato mostre, anche all’interno delle loro sedi, poco prima e durante la settimana di miart, lavorando parallelamente e con modalità inedite, inoltite per FuturDome. Questo fattore ha comportando un’enorme raccolta di materiale, di energie e di organizzazione, da parte di una collettività che si stava formando e che avrebbe dovuto cominciare a raccontarsi assieme. Pur mantenendo visibili autonomie e identità proprie che, paradossalmente, ci hanno unito. Non conoscevamo a priori la visibilità che avremmo avuto, non l’abbiamo mai realmente ponderata, cercata oppure contemplata, forse anche perché gli spazi architettonici, a piano terra e a piano -1, aree del palazzo di via Giovanni Paisiello 6, hanno fornito immediatamente la giusta dimensione raccolta che ci ha spinto a concentrarsi sulla visione di insieme di Outer Space. Più che su una sua territorialità in potenza. La panoramica sulla mostra che avevamo davanti agli occhi è sempre stata concretamente vicina ad ognuno di noi, dando vita ad una catena di infinite soluzioni che hanno portato a realizzare progetti allestitivi talvolta complessi, tra performance, installazioni sonore, videoproiezioni, sculture, disegni, dipinti, fotografie, ambienti e anche oggetti di design creati appositamente per le stanze. Lavori che ad oggi, così come sono stati assemblati, in alcuni appartamenti, non possono più essere trasportati, nella loro attuale interezza, al di fuori di FuturDome.

Current, installation view, ph. A. Belloli Ardessi, courtesy Isisuf

G.M.: Mi interessa la corrispondenza tra la storia del palazzo di Futurdome, luogo in cui gli ultimi futuristi si ritrovavano per lavorare, chiacchierare e sperimentare insieme e il lavoro che questi project space operano, autofinanziandosi e portando avanti le loro ricerche, promuovendo artisti emergenti, spostando un po’ più avanti la “linea di confine” dell’arte contemporanea e che si ritrovano per la prima volta fuori dalle proprie sedi disposti intorno al cortile interno del palazzo come in un vero e proprio “salotto”. In questo senso, potremmo secondo te riabilitare e rinobilitare l’utilizzo della parola avanguardie, caduta storicamente in disgrazia?

A.B.A.-G.B.: Il termine avanguardia risuona decisamente come un anacronismo, ma è un concetto che assume, oggi, numerosissime sfaccettature all’interno dell’arte contemporanea italiana ed europea. Comunque revisionare o riadattare pensieri storicamente conclusi non è la modalità secondo la quale FuturDome sputa sugli altari dell’arte. Outer Space è un progetto sfidante, di confronto, una prova. In termini di ambizione, il nostro unico desiderio è quello di poter rendere un palazzo di duemila metri quadrati un’estensione, un milieu per le sensibilità delle avanguardie contemporanee.

FuturDome nasce da un progetto di riqualificazione che ha impiegato quasi dodici anni per risalire alle proprie origini, all’eleganza intatta del 1913. La storia dell’edificio non era più nemmeno lontanamente trasmissibile e non rappresentava una priorità.

T-Space, installation view, ph. A. Belloli Ardessi, courtesy Isisuf

Grazie al supporto di aziende all’avanguardia nel settore edilizio, come Knauf, e di un esperto restauratore come Eros Zanotti, abbiamo mappato i decori, sanato parti in decadimento e valutato interventi che rendessero l’edificio splendido, ma non dotato di una complessità artificiale, apposta. Abbiamo sempre lavorato con grande rispetto dell’impianto architettonico, del registro storico e dell’insieme decorativo, per poterlo tornare a vedere così come appariva durante gli anni Quaranta. Quando i futuristi dell’ultima generazione si riunivano per sperimentare, per trovarsi, per conoscersi e per progettare interventi che sono poi convogliati, nel 1959, nella fondazione di Isisuf – Istituto Internazionale di Studio sul Futurismo e nelle sperimentazioni della Poesia Visuale, della Poesia Concreta dell’Arte Cinetica.

G.M.: Qual è stata la parte più soddisfacente nella realizzazione del progetto?

A.B.A.-G.B.: Outer Space non è mai stata una somma di parti, ma è la risultante di un processo fluido che ha comportato altissima consapevolezza, in termini di visione, di budget di spesa, in termini di strutturazione e ripartizioni dei ruoli così come in termini di conoscenza da parte di diversi pubblici che abbiamo voluto coinvolgere, talvolta a porte chiuse. Proprio come testimonia la presenza approfondita, generosa ed essenziale di Diego Bergamaschi e dei suoi Special visiting tour ad invito, visite che hanno permesso a collezionisti emergenti e già affermati di venire a contatto gli uni con gli altri, in un ambito di sperimentazione pura. Outer Space è una mostra che porta orgogliosamente con sé il segno della concertazione: dall’allestimento, alla pubblicazione del catalogo, alla concezione del timone curatoriale, alla ricerca di sponsor tecnici. Nell’arco di sette mesi ogni fatica, ogni incomprensione da parte di soggetti che abbiamo interpellato inizialmente è stata ricompensata da moltissime vittorie successive. Di cui ancora non siamo perfettamente consci.

Site Specific, installation view, ph. A. Belloli Ardessi, courtesy Isisuf

G.M.: Cosa suggerite ai visitatori che si avvicinano a esplorare Outer Space?

A.B.A.-G.B.: Outer Space, i suoi undici progetti, determinano la trasmissione di una continuità del cambiamento. La mostra nasce per dare struttura e consistenza ad una lontananza spaziale -perché riunisce in sé centro e periferie- e temporale, perché si avventura tra le indecisioni di un futuro semplice e le complessità di un futuro anteriore. Interpretando l’arte come un mezzo per raggiungere qualcosa che si può ottenere solo abbandonando l’arte, così come la si è codificata, conosciuta. Qui l’arte è il contrario del silenzio e rappresenta uno dei segni della complicità che ci lega gli uni agli altri, in una lotta istigata da uno sguardo comune.

Mega, installation view, ph. A. Belloli Ardessi, courtesy Isisuf

Artisti in mostra:

Almanac: Adam Christensen

Current: Luca Pozzi, Larsen Albedo, Carlo Gambirasio

Gelateria Sogni di Ghiaccio: Gianni Colosimo, Mimì Enna, Emilio Fantin, Roberto Fassone, Isamit Morales, Cesare Pietroiusti, Emilio Prini, Andrea Renzini, Luca Vanello

Le Dictateur: Elisa Seitzinger

Site Specific: Jo-Anne McArthur, Sasha Vinci e Maria Grazia Galesi

T-space: Laura Yuile, Jacopo Miliani, Jack Fisher, Giulio Scalisi, Ludovica Gioscia

Tile Project Space: Benni Bossetto, Derek Di Fabio

Treti Galaxie: Thomas Braida, Dustin Cauchi, Luca De Leva, Enej Gala, Helena Hladilova, Valerio Nicolai, Giulio Saverio Rossi

Ultrastudio: Benoit Menard, Oliver Pauk, Andrea Martinucci, Zsofia Kere- sztes, Dominik, Sebastian Wickeroth, Raphael Leray, Synchro- dogs

Mega ospita opere prestate da ognuno degli altri spazi partecipanti

Info:

http://www.futurdome.com/outer-space

About the author

Giulia Meloni

Nata a Cagliari nel 1990, migra a Roma dove studia progettazione e arti applicate; approda poi a Milano, specializzandosi in critica e curatela per l’arte.

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