“Robert Frank, tu hai gli occhi. Tutto il resto è stato fatto con una piccola macchina fotografica che si tiene in una mano.” Jack Kerouac
È morto a Inverness, in Scozia, il 9 settembre 2019, il fotografo Robert Frank all’eta di 94 anni. Considerato tra le figure più influenti della fotografia contemporanea, Robert Frank è stato il più innovativo fotografo americano, uomo che ha sempre rifiutato ricchezza e celebrità, artista la cui propensione erano per chi ha sempre lottato, che provava diffidenza per chi era prigioniero delle proprie regole. Il suo lavoro è sempre stato emotivo e impulsivo, come lo definiva la regista Laura Israel “un inquieto artista di ricerca spingendo oltre i confini del documentario, sperimentandone le forme narrative più tradizionali.”
Nel 1959 approccia al cinema: il suo film più famoso è senz’altro il documentario dedicato ai Rolling Stones (prodotto nel 1972), ma ricordiamo Cocksucker Blues e Pull my Daisy. Nel corso della sua carriera ha incontrato molti degli esponenti della Beat Generation ed è stato amico fraterno di Jack Kerouac. Sarà acclamato anche dal mondo della musica, da Patti Smith a Lou Reed.
Nato in Svizzera, a Zurigo, nel 1924, è stato tuttavia il cantore dell’immaginario Americano. È New York, infatti, che lo accoglie nel 1947 e ne lancia la carriera. Avrà una borsa di studio negli anni ’50 dalla Fondazione Guggenheim che lo finanzierà, (è il primo europeo a ricevere questo riconoscimento promettendo di produrre “un documento semplice e senza confusione sullo stato della popolazione americana”), per realizzare un progetto fotografico. Frank parte alla volta degli Stati Uniti, viaggiando in lungo e in largo per i 50 stati e realizzando oltre 20.000 scatti (ne sceglierà poi meno di 100 per il suo libro). Sarà un viaggio che durerà due anni e che culminerà in una pubblicazione nel 1958: The Americans per gli americani, Les Americains per i francesi.
Il suo è stato un lavoro ispirato a Bill Brands, a Walker Evans.
“Walker Evans sicuramente m’ha ispirato. Avendo lavorato con Evans fui veramente coinvolto dal suo modo di fotografare le persone. Qualche volta l’avevo aiutato a realizzare scatti, vicino New York o presso alcuni stabilimenti. Ne ricordo ancora alcuni, di quelli che aveva fotografato. Il suo modo di lavorare e il risultato dei suoi lavori destarono in me una grande impressione, ecco cosa mi ispirò veramente” di cui è stato assistente, come accadeva ai tempi, (ahimè oggi non più) dove, se volevi fare questo mestiere, dovevi sceglierti un grande fotografo e seguirlo.
Robert Frank è quindi un innovatore che è andato sempre controcorrente. In quel periodo la fotografica di Life classica, rigida, non apparteneva a quest’artista che, insieme a William Klein, contemporaneamente con modalità diverse, forse anche discutibili, produrrà New York, un lavoro più estetico, d’impatto, meno pieno di contenuti rispetto al linguaggio di Frank per nulla artefatto, più sincero e immediato, che racconterà l’America di quel momento, come nessuno aveva mai fatto. Quel reportage era qualcosa di nuovo ma, soprattutto qualcosa di scomodo, scene di strada in composizioni errate, ritratti grotteschi e dettagli fastidiosi, un racconto che venne accusato di essere specchio di un uomo ingrato verso quell’America che lo aveva accolto. Basti pensare che nello scegliere immagini per la sua pubblicazione, escluderà quelle “corrette” per scegliere quelle decentrate, inusuali, mosse. A suo avviso, la fotografia non è solo estetizzazione, ma strumento di visione, una visione che va oltre, che ha qualcosa da dire (le immagini di Americans mostrano un’America folle, ossessionata dal mito, il comunismo dilagante, il conflitto con la Russia, la guerra fredda, l’America razzista, un’America piuttosto nevrotica e ipocrita). Americans rappresenta la storia travagliata del suo lavoro, il suo raccontare di un’America di strada, quella che sarà la Beat Generation. Non ne era ancora in contatto ma ne respirava l’aria . Si ritroverà nelle sue scelte sia formali che ritmiche, la passione per le storie minimali, persone comuni, verità e mai propaganda. Robert Frank con questo suo primo racconto, non solo sottolinea la sua capacità di saper mettere insieme i vari passaggi tra una foto e l’altra anche se apparentemente non hanno nulla in comune, ma sa creare una continuità tra le immagini. Le sue sono sequenze ritmiche, l’esigenza di Robert di andare oltre la fotografia (il suo bisogno di cinema).

Abbandonerà la fotografia subito dopo Americans e si dedicherà al cinema e in questo ambito incontrerà la beat generation, i suoi autori, realizzando film brevi per poi ritornare alla fotografia attraverso quel filo costante che la unisce al cinema. In uno dei suoi filmati si nota quanto sia capace di catturare l’attenzione anche con scene che potrebbero risultare noiose. C’è solo il riflesso di un tramonto che cede la scena ogni tanto all’intero tramonto e parla, in un modo insostenibile che però non fa distrarre, perché unico e forte il suo magnetismo, come solo i grandi autori sanno fare.
Quando ritornerà alla fotografia Robert Frank lo farà con una visione ampia ai vari mondi dell’immagine, le sue fotografie saranno immagini correlate da frasi, immagini di un letto vuoto (i problemi del figlio, poi la sua morte saranno un velo di tristezza costante sui suoi occhi…), diari visivi che raccontano con estrema verità e poesia, rilegati in modo “strano” come cataloghi personali.
Un racconto di fotografie che funzionano insieme, con le forme, sequenze e linee che si susseguono per analogie, pieni e vuoti, un filo di continuità e autorialità, per poi scorrere via leggeri nonostante le foto possano non appartenere allo stesso tema o momento, perché in lui vi è sempre una chiarezza di intenti (persegue un progetto tutto nella sua mente con una chiarezza spaventosa per Americans, su 25 mila scatti arriva a sceglierne 80).
Rober Frank traccia l‘immagine di un’epoca, nel documentario più che nel fotogiornalismo poichè è chiara una sua più personale visione, Frank prende posizione, la sua è documentazione in senso puro di ricerca, lontana dai canoni del tempo, si pone di testimoniare dando strumenti per andare comunque oltre, aldilà di ogni opinione.
Il fotogiornalismo comunque non sarà più lo stesso, Robert Frank portò la progettualità ad una nazione intera, gli Stati Uniti d’America, dal punto di vista del suo lavoro è un pioniere.
Robert Frank non c’è più, noi tutti siamo figli della sua fotografia, la fotografia è orfana.
Robert Frank è morto, dicono. E’ difficile crederci, è viva la sua poesia, quella estratta dal cuore della strada, dal cuore di una fotografia che di certo sarà più triste senza di lui, ma che mai potrà morire se si continuerà a leggere le sue immagini, i suoi racconti e ad osservare con i suoi occhi.
“L’aria è infetta dal puzzo di fotografia” Robert Frank
Maria Di Pietro
in copertina: Robert Frank nella casa di Wayne Miller durante le riprese del suo libro The Americans. California, USA. 1956. © Wayne Miller / Magnum Photos
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