NFT, Crypto Art, blockchain, Metaverso: ultimamente se ne parla spesso – e sempre di più – ma quanto ne sappiamo realmente? Abbiamo incontrato Serena Tabacchi, tra le primissime studiose in Italia di questo nuovo scenario, direttrice e co-founder a Londra di MOCDA, Museum of Contemporary Digital Art. Le abbiamo chiesto un po’ di cose, per ripercorrere la storia fin qui scritta dal nuovo fenomeno digitale, tra verità, falsi miti, reticenze, e qualche curiosità da sapere (e raccontare).
Intervista a cura di Serena Vanzaghi
Partiamo dalle origini, per fare un po’ di chiarezza e sgomberare il campo da possibili dubbi: in quale contesto è nata la Crypto Art? Dove affonda le sue radici?
Il primo punto su cui far chiarezza è il nome stesso, che purtroppo porta con sé un vizio di forma mai risolto. Parlare di Crypto Art è tutto e niente al tempo stesso. A livello grammaticale è scorretto perché l’accezione del termine crypto con l’arte ha poco a che vedere. La parola crypto infatti è stata “presa in prestito” da un altro contesto, quello finanziario, per progetti di scalabilità verticale. Questa tecnologia è stata applicata negli anni anche alla cosiddetta finanza decentralizzata (ovvero senza l’intermediazione di broker o di banche o di altri soggetti) e poi ereditata, per osmosi, in ambito artistico e non solo. L’errore di fondo è che si pretende di identificare un ‘movimento artistico’ con un processo meccanico, ovvero un’applicazione tecnologica in grado di assegnare un identificatore e garantire l’unicità di un file tramite una stringa di codice alfanumerica. Un processo controllato dalla blockchain, un registro immutabile che preserva la tracciabilità delle transazioni, rendendo impossibili falsificazioni o riproduzioni.

Prima queste tecnologie erano esclusivamente applicate alle operazioni con bitcoin, facevano parte di quel sistema di strumenti messi a punto per rendere sicuri i processi digitali, poi sono state adattate anche ad altri tipi di file, tra cui quelli artistici. Il concetto di unicità immutabile, incontrovertibile e perenne è quello che ha spinto alcuni artisti a sperimentare questo processo sulle loro opere, attraverso quindi l’utilizzo di strumenti come gli NFT (Non Fungible Token) e gli Smart Contract, che vanno a creare delle funzioni e delle applicazioni di autenticazione su prodotti digitali. Perciò, sarebbe più corretto quindi dire che alcuni artisti si servono di questo sistema tecnologico, non che producono Crypto Art. Ma ormai il termine è ampiamente sdoganato, come ben sappiamo…
Una doverosa precisazione, la tua, grazie. La questione terminologica non sembra essere l’unica da chiarire in questo ambito che, per molti aspetti, è ancora da comprendere e scoprire. Da un punto di vista storico-critico, per esempio, quanto la Crypto Art (non possiamo comunque fare a meno di utilizzare il termine…) ha a che vedere con le sperimentazioni processuali degli anni Settanta/Ottanta, della Net Art e Digital Art e Video Art, o dell’Arte Generativa con le varie produzioni autonome tramite algoritmi, sistemi informatici, robotici, intelligenze artificiali?
Sarebbe sbagliato affermare in toto che la Crypto Art è un’evoluzione delle sperimentazioni artistiche digitali degli ultimi decenni perché, se può essere vero per alcuni autori, non lo è per tutti. Ci sono stati e ci sono tuttora motivi diversi per cui le persone si avvicinano a questi processi digitali – che comprendono la creazione di NFT di vastissima natura – e non è detto che lo facciano perché consapevoli di uno sviluppo di senso storico-critico. Alcuni autori già facevano arte con altri media, visuali, e si sono avvicinati agli NFT per avere un loro spazio, per potersi creare una nuova visibilità e un nuovo mercato, sondando le possibilità del digitale e di questi applicativi. Dall’altra parte, non mancano artisti che già si occupavano di arte processuale digitale, generativa, e che sono andati poi applicando anche queste funzioni.

Puoi farci qualche esempio?
Certamente. Tra chi fa arte generativa utilizzando anche gli NFT, possiamo menzionare, a titolo d’esempio: Kevin Abosch, artista irlandese classe 1969, da sempre impegnato nell’applicazione di algoritmi e intelligenze artificiali ai suoi lavori; Massimo Franceschet, tra i primi NFT artist in Italia e nel mondo, è professore di Informatica all’Università di Udine e con il nome d’arte hex6c crea opere con Processing, un linguaggio di programmazione (nel web si trova anche un suo interessante piccolo decalogo per del crypto artist, ndr); Luca Donno, giovane artista di Rimini e blockchain developer, anche lui utilizza per le sue edizioni di opere dei software di sketchbook che permettono di codificare elementi di visual art come data, sistemi geometrici o algoritmi, per dirne alcuni.
Allo stesso tempo ci sono artisti che non fanno propriamente arte generativa – ovvero lasciando che sia direttamente il processo a creare l’opera stessa – ma che intervengono nell’iter creativo con alcuni applicativi come strumenti e playform per elaborare alcuni dati su matrici fisiche. È questo è il caso di Mattia Cuttini, ad esempio, che si muove tra il graphic design e la blockchain technology.
Oppure ancora, giusto per fare una panoramica di diversificazione, gli Hackatao (duo composto da Sergio Scalet e Nadia Squarci, ndr), che producevano in origine sculture e dipinti “fisici”, sono stati tra i primissimi in Italia ad applicare il Not Fungible Token a qualcosa che inizialmente nasceva con caratteristiche prettamente fisiche. Poi, negli anni, hanno aggiunto animazioni e contestualizzazioni digitali per esplorare il mondo del Metaverso, anche tramite la creazione di un videogioco regolamentato da NFT, in collaborazione con la piattaforma The Sandbox.
Anche Skygolpe, tra gli autori italiani più conosciuti, aveva mosso i primi passi d’artista nella street art a Londra, poi si è avvicinato con il tempo agli NFT.

Oggi tutti potrebbero creare un NFT. Qualsiasi file digitale, di qualunque estensione (documento, immagine, video, musica, ecc…), può essere sottoposto al processo blockchain per trovare la sua identificazione digitale perenne e irrevocabile, accessibile a un pubblico. Da un punto di vista delle produzioni artistiche, uno dei punti di forza di questo fenomeno è proprio questo: un sistema aperto a tutti, orizzontale e decentralizzato. Al contrario del sistema dell’arte tout-court, elitario e verticalizzato, come sappiamo. Ma è veramente così? Tolta l’intermediazione di gallerie, dealer e figure “di mezzo” tra opera e collezionista, non vi è alcun sistema gerarchico o altri tipi di ingerenze/speculazioni?
Creare un NFT oggi è questione di quattro clic, il procedimento si è molto semplificato rispetto a un paio di anni fa, e quindi è realmente accessibile, anche per chi non si intende prettamente di tecnologia. Da questo punto di vista sì, è vero, si tratta un sistema aperto e non gerarchizzato, non ci sono selezioni e tutti possono condividere la loro creazione. Agli albori, gli artisti che hanno visto in questo contesto l’opportunità di crearsi una loro visibilità, sono stati lungimiranti. Hanno voluto uscire dalle dinamiche del sistema dell’arte “fisico” e molti di loro hanno trovato successo. Naturalmente sui numeri sempre più elevati a cui stiamo assistendo oggi, proprio per la grande accessibilità che contraddistingue questo ambito, si presentano situazioni differenti e non sempre dettate dalla bravura degli artisti e da una logica meritocratica. Ma questo avviene sempre, in ogni contesto, sui grandi numeri. Negli NFT molto fa il pubblico, la community, e anche in questo l’orizzontalità è decisiva: i cosiddetti OG, gli Old Gangsters degli NFT, ora hanno una larga fetta di mercato perché sono stati supportati dalle community, ancora prima delle aste e di altri soggetti “esterni”. Tutto è iniziato come una forma di sistema autoreferenziale, in grado di autoalimentarsi. Erano gli artisti stessi a collezionare altri artisti, lo fanno ancora oggi, ma purtroppo sempre meno. Il collezionismo digitale è aumentato in questi ultimi tempi, vero, ma in senso meno “sentimentale”, allargandosi a un pubblico che mira più a “fare l’affare”. E questo cambio di paradigma, ovvero cercare di fare l’investimento, sta un po’ creando delle dinamiche speculative che nuocciono al sistema stesso.
Purtroppo, per certi versi, si stanno riportando alcuni andamenti del sistema arte contemporanea anche nel digitale, in un mondo che nasce invece decentralizzato, destrutturato. Come sempre, e anche in questo caso è così, la tecnologia è al nostro servizio, dipende sempre come viene utilizzata.

La tecnologia in questo senso ha cambiato anche lo stesso concetto di fruibilità di un’opera: esiste un proprietario che acquista l’NFT, ma l’opera resta a disposizione di tutti, chiunque può fruirla. Al contrario del concetto di esclusività che ha sempre alimentato il mercato dell’arte…
Sì, esatto. E più un’opera viene condivisa, più aumenta in valore. Si tratta di una logica diametralmente opposta all’esclusività dell’arte a cui il sistema ci ha abituato, in cui uno compra un’opera e la tiene per sé, magari in un caveau senza vederla per anni.
Mi sembra che i detrattori della Crypto Art si appellino, da una parte, al fatto che non sia una forma d’arte”degna” di essere considerata tale (usando frasi come “è l’arte delle emoji pixelate” e via dicendo), dall’altra, rilegando il tutto a pure speculazioni commerciali, derubricandolo a mero strumento per fare soldi facili. Che ne pensi?
Penso che ci sia ancora molta ignoranza sul tema. Molti giudicano dall’esterno, senza avere chiavi di lettura e senza aver la minima voglia di indagare meglio il contesto, rimanendo così fermi a un giudizio aprioristico, senza maturare un parere obiettivo, circoscritto. Poi, certo, non voglio dire che non ci siano dei limiti, che le persone che si affacciano alla Crypto Art siano tutte genuine o che non ci sia nessuna forma di speculazione, ma questo avviene in ogni settore della contemporaneità, nulla di nuovo rispetto ad altri contesti. Poi, naturalmente, la produzione digital può piacere o non piacere, ma questo è un altro discorso. Nessuno può negare però che stiamo assistendo a un successo di pubblico, sempre più diffuso. E se c’è una massa critica che segue, che investe, che compra qualcosa che non ha trovato nel mondo dell’arte “reale” (per mille motivazioni diverse, spesso però non legate alla meritocrazia dell’artista, ma ad altre logiche), può solo voler dire che c’è un interesse vero su questo fenomeno, e sempre più in espansione.

Nello specifico, in Italia qual è stata secondo te la percezione del fenomeno? Come è stato accolto?
L’Italia, in realtà, è stata uno dei primi Paesi ad aprirsi a queste nuove opportunità tecnologiche. Diversi artisti hanno intrapreso questa strada, perché fondamentalmente siamo un Paese poco meritocratico e abbastanza povero. Artisti che oggi sono diventati famosi con gli NFT erano considerati sfigati dal mondo dell’arte, vivevano in contesti marginali, sostanzialmente esclusi dal sistema artistico ufficiale. Così, per poter vivere della propria arte, hanno cercato altre vie, si sono ingegnati, hanno studiato le applicazioni tecnologiche per crearsi una propria visibilità, slegata dai circuiti tradizionali. Sono magari partiti dalla creazione di un account Twitter o Discord e da lì hanno deciso di “autoalimentare” il loro successo, un passo alla volta. Sono stati bravi e furbi, avrebbero probabilmente fatto la fame per le logiche del sistema dell’arte tout court, e invece hanno trovato un loro modo per fare soldi, una via per il successo. I 15/20 artisti che agli albori si sono tuffati in questa avventura hanno saputo rischiare, hanno scommesso sulla loro arte e sulle loro capacità, mettendo in atto gli strumenti che conoscevano, come li conoscevano, e impegnandosi a studiarne di nuovi. Ci hanno visto lungo: poteva andare bene o male, ma ci sono riusciti.
Chi sono stati questi pionieri?
Tra quelli della primissima ora: il duo Hackatao, Massimo Franceschett (in arte hex6c, come si diceva), Fabiano Speziari, per esempio. Altri poi, nel tempo, hanno incominciato a interessarsi e ad appassionarsi a questo scenario, a frequentare i social e le community e sono entrati nel giro. Mi riferisco ai già citati Mattia Cuttini e Skygolpe, ma anche a Federico Clapis e a Emanuele Dascanio, che faceva ritratti iperreali su supporti fisici, poi si è aperto al digitale, anche per necessità economiche, e da lì hanno iniziato a sperimentare. E come lui molti altri. Ma come si può biasimare un artista che cerca di sviluppare la sua arte, anche da un punto di vista economico, mettendo in atto strategie alternative a quelle del sistema vigente? Non può essere ricondotto tutto a una mera operazione di speculazione. Io ci vedo più la bravura e la lungimiranza di crearsi una propria strada, che il mondo dell’arte contemporanea non ha loro permesso, mettendosi in gioco, imparando a usare nuove tecniche.

Mi sembra che il sistema dell’arte istituzionale a oggi adotti un atteggiamento un po’ ambivalente rispetto alla questione NFT e affini. Se da un lato fiere e aste internazionali come Sotheby’s, Christies, Art Basel, si stanno aprendo a queste logiche e ne stiano intuendo/sfruttando le potenzialità, dall’altro lato è innegabile una certa reticenza.
Gli NFT non sono attualmente normati, secondo me c’è una resistenza dovuta più che altro al fatto che è ancora un campo sconosciuto e labile, per certi aspetti. Alcuni player (non solo istituzioni, ma anche galleristi, critici, curatori e tutte le altre figure che girano attorno al sistema) preferiscono forse non esporsi per paura di sbagliare o di non gestire bene una cosa che non governano e non conoscono, esponendosi così a possibili critiche e giudizi. Però il tutto è collegato al fatto che non esiste ancora una consapevolezza vera del fenomeno, si tende a vederne solo una parte, quella che molte volte si ferma solo alla superficie, senza indagare realmente le dinamiche di fondo. Ci vuole studio, applicazione, volontà di mettere a fuoco: non sempre tutti hanno voglia o tempo da dedicare per mettere in atto anche nuove strategie, diverse rispetto a quelle conosciute. I musei si stanno timidamente affacciando a queste nuove pratiche, lo dimostrano le sempre più diffuse mostre e occasioni espositive dedicate alla Crypto Art. D’altra parte è anche fisiologico: è come se i musei avessero accolto sin da subito il movimento dadaista al loro interno, per esempio, accettando le provocazioni e lo scardinamento dei livelli del sistema, o altri fenomeni simili di contrasto. Magari tra 10 anni, forse meno, tutti i più grandi musei del mondo avranno una sezione dedicata agli NFT, con tutte le nuove sperimentazioni, anche espositive, che ne conseguiranno. Staremo a vedere…

Che poi, in realtà, anche in Italia stiamo assistendo a un aumento sempre più considerevole di NFT Art Exhibition, basti pensare alla Biennale di Venezia appena inaugurata, con il Decentral Art Pavillon a Palazzo Giustinian Lolin, tra gli eventi collaterali…
Sì, e si stanno muovendo in questo senso molti progetti un po’ in tutta Italia: al MAXXI L’Aquila è stata di recente prodotta la prima mostra immersiva e interattiva nella sede virtuale del Museo sul Metaverso di Arium, con un floating studio di Miltos Maneta sia in presenza sia virtuale; al Museo della Permanente di Milano si sta svolgendo la seconda mostra dedicata al tema. Ci sono tante occasioni, sia a livello nazionale e internazionale, che sono sempre più attenzionate, come per esempio l’asta parigina di Aguttes a febbraio, chiamata “l’asta proibita”, che ha bruciato i certificati “fisici” di autenticazione NFT, per avvalorare ancora di più la loro fiducia indiscriminata nel digitale.
E tu, come sei approdata in questo mondo? Non ci sono molte persone così ferrate in questo campo come te, almeno in Italia…
Sono approdata un po’ per caso, un po’ per curiosità. Quando vivevo a Londra ho fondato MOCDA, in tempi non sospetti, un’organizzazione che promuove e divulga l’arte digitale, insieme a Dominic Perini e Tom van Avermaet. Domenic è italo-tedesco, architetto e ingegnere di scalabilità su blockchain, suo papà è un artista, condividevamo la passione per l’arte (io all’epoca lavoravo alla Tate); Tom è un regista cinematografico, appassionato di arte digitale, è stato tra i primi influencer dell’arte digitale sui social media (su Instagram si definisce: curator of the surreal and melancholic, filmmaker/professional dreamer, quasi 48.000 followers, ndr).

Abbiamo messo insieme le nostre passioni, ci siamo influenzati a vicenda; insieme abbiamo continuato a leggere, a studiare, a informarci e fare ricerca, molta ricerca. Io non volevo rientrare in Italia ma sono stata costretta per varie ragioni e, qui, mi sono resa conto che non c’era nessuno a parlare di questi argomenti, tanto meno donne. Così sì, per ora, se vogliamo dire che sono tra le prime studiose di questo ambito, è vero, e ne sono contenta.
5 crypto artist da tener d’occhio?
Sono un po’ in difficoltà a citarne solo alcuni… ce ne sarebbero a centinaia! A titolo di esempio, posso dirti: Nicole Ruggiero, Federico Solmi, Gordon Berger, Kevin Abosch, WeAreHaar, Clara Luzian (Render Fruit), Fvckrender, Alessio De Vecchi.
Serena Vanzaghi
In copertina: Ina Vare, “Outings”