Il regista danese Refn si confronta con il format serie, oramai si può anche evitare l’aggettivo televisiva (lo stesso autore infatti definisce questo lavoro streaming), e il risultato è un agghiacciante spaccato dell’America contemporanea, una pietra miliare non soltanto di generi sapientemente mescolati ma proprio del linguaggio video seriale. Tempo-spazio-luce-suono vengono manipolati scardinando la consequenzialità di una ipotetica trama e imponendo una dinamica totalmente innovativa dell’esperienza visiva. Ma andiamo per gradi.
TEMPO
Il tempo scorre ma la sua qualità non è univoca. Qui la densità dilatata dell’azione/reazione funziona come dispositivo di controllo emotivo sulla percezione dello spettatore. In effetti Refn ci abbandona a ritmi esasperanti che si oppongono drasticamente alla frenesia delle nostre esistenze. Siamo in balia dei silenzi enigmatici dei personaggi e delle derive oscillanti della camera. Prima e dopo sono interazioni ininfluenti, perchè ogni azione viene sacrificata sull’altare dell’estetica, della pura sensazione. Jesus, uno dei protagonisti, ha sempre le labbra in procinto di proferire una parola che non verrà mai pronunciata. La sua prossimità a parlare è sempre un vezzo, un’emiparesi. Ma il principe americano, come viene soprannominato Jesus al suo rientro in Messico, non è l’unico a sentire il peso del tempo e trasformarsi quasi in una rappresentazione statuaria di se stesso. I personaggi di TOTDY sembrano sempre in posa, ma non per scelta, quanto per l’ispessimento dell’aria che li comprime. Rallentare equivale ad un implacabile sottostare ad uno spazio opprimente; lo stare al mondo rende ogni gesto, ogni risposta un’impresa tutt’altro che semplice ed immediata.
SPAZIO
Siamo nel dominio della panoramica e del vuoto. Chiuso o aperto che sia non c’è alcuna differenza, regna la sonnolenza assoluta. Siamo sempre in panoramica. Gli stessi personaggi sono spesso elementi di un panorama. Stanno effettivamente al mondo. Cioè stanno in posizione, determinando prospettive, opponendosi alla nostra percezione di quello che nascondono alla vista. Modalità che talvolta si ritrova in certi dipinti di Francis Bacon. Ma lo spazio attraversato è soprattutto ritmo lento, sincopato, ma ritmo. Un’esecuzione può scandire il percorso di crescita a ritroso (di Jesus) all’interno di un processo di andata e ritorno verso l’ignoto. Inquadrare in piena distrazione forzata, pone gli spettatori in una posizione scomoda, ma intima. Cosa accade altrove accade dentro di noi.
Il gioco di riflessi è un altro punto di forza di TOTDY. La duplicità, talvolta multiversale dei caratteri in scena, ricorda molto Tween Peaks di D. Lynch, anche se non è l’unico riferimento al maestro statunitense. I protagonisti della serie non finiscono mai per caso nella trappola del loro rilfesso, questo evento sembra più un segno del destino, un’indicazione del fato. Martin si rivede nello specchio grondante sangue, riconoscendo una parte di sè, che rinnega o che comunque non riesce ad affrontare, ma al tempo stesso quella visione rigata di rosso e puntellata di schizzi ematici è un monito angosciante. Oltre ad oscillare, la camera si nasconde. Vediamo spesso ciò che accade da dietro, da fessure di porte, dalle grate del sostegno metallico di un telefono a gettoni, talvolta anche raso terra, altre invece troppo distanti per poter comprendere. In fin dei conti siamo lì dove Refn vuole portarci ed è come un amico che in silenzio ti conduca a ficcare il naso di nascosto dal buco della serratura in casa di estranei poco raccomandabili.
LUCE/COLORE
Neon, neon, neon. I colori acidi sono sicuramente una componente predominante dello stile del regista danese. Ma soprattutto il rosso e il blu, in tutte le loro varianti, sono i protagonisti assoluti di TOTDY. Toni caldi e toni freddi giocano di contrappunto sia in successione che in antitesi all’interno della medesima scena e scavalcando gli immediati riferimenti metaforici, costruiscono altre ipotesi cromatico-simboliche. Lo stesso vale per luce e ombra, Refn utilizza ogni sfumatura, ogni cangianza, ogni contrasto come suggestione ulteriore, come rincaro emozionale. Si tratta in effetti di una serie marcata da evidenziatori di varia tonalità e intensità. Il volto e il petto di Martin vengono letteralmente indicati (o potremmo parlare di emanazioni, una della mente-ragione e l’altra del cuore-sentimento) da due raggi della bandiera giapponese, mentre osserva la punizione del debitore, al di là della parete di vetro che genera riflessi e sovrapposizioni tutt’altro che casuali. Le bandiere d’altro canto incorniciano, determinano, amplificano sempre alcuni personaggi, come se in loro s’incarnassero i valori e le qualità di un intero paese, Stati Uniti, Messico, Giappone.
Questo processo trova la sua antitesi nella sfocatura, soprattutto in alcuni piani americani e piani medi, che determinano un’implosione assoluta della definizione e dell’evidenza. Tra incubo e follia, la messa a fuoco fallita si traduce nell’imponderabile, nella sconsideratezza, ma anche e soprattutto nell’ineluttabile, nell’atto finale, nella sempre oscillante e paradossale strada che divide bene e male. Le luci della città e del traffico si trasformano in strisce pulsanti di colore durante il monologo/dialogo sulla fine del mondo tra Viggo e Martin.
SUONO
I suoni, la colonna sonora e i silenzi sono i pilastri di questo affresco contemporaneo. Appena percettibili certi dialoghi sembrano invitarti ad accostarti per un segreto rivelato. Quasi una ricerca d’intimità eccessiva. Sussurri e confessioni. Ma ad ogni basso corrisponde un alto. Difatti a rompere i silenzi arrivano il frastuono del motore di un fuori strada che attraversa il deserto in folle corsa, ricordando un animale feroce lanciato contro la preda, o molto spesso la colonna sonora di Cliff Martinez interviene con archi percussivi e atmosfere crepitanti. Possiamo anche trovare un’ironia del tutto nuova per il regista danese, come nella scena del “venerdì mattina”, in cui il tenente intrattiene i suoi sottoposti con un concertino di Ukulele e un furibondo coretto innegiando al fascismo, mentre Martin resta imperturbabile in uno stato catatonico. Come non pensare anche qui a David Lynch. E infine i respiri, i sospiri, a cui vengono dedicate delle sequenze indimenticabili in cui il tempo rallentato e rarefatto è tangibile nelle casse toraciche che si muovono sotto la pelle, nelle pance che si gonfiano lentamente e rilasciano ancora più a rilento. Sembra quasi di poter sentire il battito del cuore dei protagonisti che ansimano piano, che dilatano il respiro, che attendono, che misurano la loro capacità di essere umani.
CORPO
I corpi sono attributi dello spazio. Immobili, puntellano le scene come se postessero scappare via. Sono adagiati, riposti, distesi, frammentati, inginocchiati, supini, soli. Ecco sono soprattutto soli, sempre e comunque. Anche quando si trovano in compagnia, determinano uno spazio di prossimità estremo con tutti gli altri presenti. I corpi di TYTDO sono isole sperdute. Se ne vanno in giro lentamente, si fissano per infiniti minuti in cui apparentemente sembrerebbe non accadere nulla, ma non è affatto così. Il loro rigore è segno di una disperata deriva di senso delle loro vite, una timidezza disarmante che li imprigiona in pose scomode, inutili, impacciate. Quasi fossero alieni.
Ma siamo per l’appunto al degrado. Lo troviamo nel vomito sui sedili che Martin cerca di pulire, senza grandi risultati, sui continui sputi, da quelli rabbiosi, a quelli risentiti, da quelli intrisi di sangue a quelli per sancire una promessa.
La parzialità e duplicità dei corpi si riscontra nell’uomo senza un occhio, alle mani amputate, dalle inquadrature che recidono di netto parti dei corpi in scena. I corpi sono a brandelli, come in frantumi sta implodendo la società messa in scena da Refn. Porno discusso, mai esplicito, ma erotismo a palate. Nell’inginocchiarsi, nello sfiorare, nel carezzare, nell’inseguire per uccidere cercando la canzone appropriata.
Il sangue è elettrico ed esplode d’improvviso, istantaneo. Dietro una porta, da un finestrino di un auto in sosta o da un fendente inatteso. Ma la sua presenza è anche metafisica, onirica, paludosa, come ad esempio quando Martin parla seraficamente al cellulare con la sua giovanissima fidanzata mentre si trova in un algida cella frigo, nella pozza di sangue proveniente da un corpo femminile, visibilmente torturato e ucciso.
TAROCCHI
Alla ricerca di un dio. Nelle carte forse il responso. Un dio che punisca. Un dio che istradi. In un Messico senza legge, in una L.A. oscura e fragile, in pieno deserto o nelle strade più buie dell’ultima periferia. Una fine del mondo che si snoda in una discesa all’inferno senza speranza. La natura di questi personaggi è l’ossessione stessa del ritorno a quella ferinità che ci sta accanto da secoli, nonostante il progresso. I tarocchi sono un’esca, un minuscolo amo che ti infilza e ti rigira la carne nell’esperienza unica di sprofondare in questa visione plumbea ed elettrica, narcotizzante ed eccitante.
Fabrizio Ajello
Add Comment