Namsal Siedlecki a Roma per la sua prima mostra personale con un progetto sui bitcoin e sul potere trasformativo dell’arte.
La moneta è capace di dare un valore a ogni cosa. Persino le opere d’arte, incautamente assimilate a qualsiasi altra merce, vedono definire la loro rilevanza in base al prezzo attribuito dal mercato. Cosa succederebbe se fossero le opere a guadagnare denaro autonomamente, lavorando per loro stesse, senza alcun altro fine se non quello di produrre moneta? Su questa premessa nasce il progetto dell’artista Namsal Siedlecki, tornato a Roma per la sua prima personale negli spazi di smART, a cura di Saverio Verini, dopo l’esperienza come borsista presso l’American Academy in Rome.
Il progetto di Siedlecki prende le mosse dai bitcoin, criptovaluta tra le più famose esistenti, caratterizzata dalla virtualità e decentralizzazione della moneta. Ciò significa che non esistono organizzazioni centrali che controllano le transazioni, bensì registri open source, chiamati blockchain, che certificano e schedano il passaggio di bitcoin. I blockchain sono realizzati da un sistema di blocchi in successione che registrano le transazioni crittandole. Ogni nuovo blocco che viene aggiunto alla catena viene chiamato miner che, come suggerisce la traduzione dall’inglese “minatore”, estrae criptovaluta dalla rete. Siedlecki prende in prestito dal mondo dei bitcoin questi estrattori di moneta per utilizzarli nella sua pratica artistica e donare loro un nuovo statuto.
La mostra dal titolo “White Paper” – che riprende il nome dal documento fondativo della criptomoneta scritto da Satoshi Nakamoto – si concretizza in sculture ibride, elementi naturali e digitali che accostati modificano il loro status e scoprono nuove funzionalità. Il miner collocato nel contesto espositivo si scopre ready-made ma, a differenza dell’oggetto di uso comune decontestualizzato e assunto come opera d’arte, è difficile riscontrarne nella forma una seppur minima familiarità. Così le strutture in pietra e i tronchi di olivo diventano il basamento dei miner che, a loro volta, vengono assunti come oggetti degni di attenzione, elevati a opere d’arte.
Il funzionamento di questi dispositivi tecnologici resta avvolto nel mistero: i miner continuano ad arricchirsi in una dimensione virtuale, noncuranti del loro nuovo assetto che li ha caricati di fatticità artistica. L’unico indicatore della loro operosità è il rumore prodotto dagli estrattori di criptomoneta che, come un disturbante tappeto sonoro, riempie prepotentemente lo spazio. Questi oggetti dotati di vitalità (se intendiamo il termine nell’accezione di operosità autonoma e dinamica) si contrappongono alla grave pesantezza dei loro basamenti che invece diventano meri oggetti inanimati, dotati della sola funzionalità di sorreggere o contenere le forme dei miner. Le quattro sculture ibridate sono disseminate nello spazio espositivo connesse tra di loro da una fitta rete di fili elettrici che, passando da una stanza all’altra, creano un apparato circolatorio digitale, metafora che rafforza l’idea del pieno vigore delle opere.
A completare la mostra troviamo delle tele in pergamena, membrana di origine animale che nell’antichità veniva spesso utilizzata come registro di operazioni finanziare (è evidente il rimando alla funzione dei miner di memorizzazione e controllo delle transazioni). Anche in questo caso, Siedlecki strappa via l’oggetto dalla sua funzione originaria per donargli nuova vita: la tela di origine animale montata sul telaio è tesa e vibrante come pelle di tamburo e nel suo nuovo status artistico risulta un interessante monocromo. Unici referenti che rimandano alla vecchia esistenza del materiale sono le macchie e i segni che ricordano la fisicità dell’animale.
Le sculture e le tele sebbene così diverse condividono lo stesso destino: svincolate dalle costrizioni del senso, che le vuole incatenate al significato socialmente codificato, le opere sono libere di trasformarsi, mutare sostanza attraverso l’accostamento formale con altri oggetti. Grazie a questo processo trasformativo Namsal Siedlecki concede alle opere carta bianca, donando loro il potere di autodefinizione e di attribuzione di valore (sta a noi vagliare se il guadagno dell’opera possa essere considerato un effettivo valore, o se Siedlecki ci stia ponendo davanti un ragionamento paradossico), decidendo attivamente il loro posizionamento nel mondo dell’arte.
M. Maddalena Di Caprio
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