Prima personale italiana per Mika Rottenberg al MAMbo di Bologn: undici opere, tra installazioni e video, un caledoscopico e ironico viaggio nelle contraddizioni del contermporaneo con uno stile tagliente e visionario. Il mondo del lavoro, la globalizzazione, il valore e il prezzo delle merci, il riscaldamento globale, le questioni razziali, vengono frullate in una narrazione sopra le righe che diverte ma al contempo corrode.
La parte maggiormente coinvolgente è senza dubbio la serie di video (dai 3 ai 28 minuti) che inchiodano lo spettatore in un vero e proprio tour nell’immaginario dell’artista argentina. Ristoranti cinesi al confine tra USA e Messico, capannoni di selezionamento di perle, tunnel, stanze misteriose dove bolle di sapone dalle strutture articolate fluttuano ed esplodono in coreografiche frattali di fumo.

I temi socio-politici vengono affrontati attraverso posizioni diagonali, mai banali o dirette. Venditrici ambulanti con tanto di carrellino sbucano dal nulla vicino al muro tanto caro a Trump. Personaggi improbabili si agitano dentro piatti tipici cinesi. Sagome di animali di dipinti orientali vomitano e defecano. E i nasi sempre in preda a tormente di raffreddori esplodono in starnuti che producono conigli e bistecche, talvolta anche lampadine.

La lampadina è un leitmotiv. Illumina i cunicoli, pende da ogni sorta di soffitto colorato, viene distrutta in fantasmagorie di frantumi da un incessante lavorio. Un oggetto archetipico. L’idea, la scintilla, il fuoco, il linguaggio. In effetti tutto il lavoro della Rottenberg è incentrato sul linguaggio del corpo in relazione con l’ambiente. Esterno o interno, l’ambiente è sempre strabordante di oggetti oppure vuoto e desertico. Due eccessi che si compensano e che danno un senso di vertigine in queste vere e proprie catene di montaggio visivo.

In conclusione ci si può rinfrescare tra cumuli di scatole e scatoloni, con una san salvietta Tropical Breeze imbevuta di autentico sudore mulatto.
Fabrizio Ajello