La potenza dell’immagine oggi è tutto. Nulla può resistere alla sua inarrestabile forza visiva: etiche, regole, inibizioni. Lo sappiamo bene noi, nati e cresciuti in una società che ha fatto dell’ossessione per l’immagine e per l’apparenza la sua cifra stilistica generazionale; l’abbiamo sublimata, svuotata, idolatrata e scentrata; l’abbiamo data in pasto al web, senza remore, per poi raccoglierne i frammenti nei caleidoscopici motori di ricerca o negli album virtuali delle nostre vite iperconnesse.
Fosse solo una questione di circostanze, ci rassegneremmo al dato oggettivo e semplicistico de “sono i tempi moderni”, magari corrugando le sopracciglia e storcendo il naso, ma senza dare adito a grandi polemiche: insomma, c’est la vie, e ognuno vive la vie che anche l’epoca impone. Tuttavia esiste una deriva preoccupante di questa distillazione perpetua d’immagini a cui siamo sottoposti, un substrato di pixel che mostrano un volto inquietante del nostro oggi, ma soprattutto del modo di porsi della società contemporanea (e dei media) di fronte a certe manifestazioni che hanno a che fare con il “male”, riconducibile a quel concetto universale a cui si riferiva, in altro contesto, anche Hannah Arendt nel suo “La banalità del male”.
Un male che spesso viene perversamente enfatizzato e spettacolarizzato, creando reazioni scomposte e incontrollate di fronte a fatti che meriterebbero attenzioni e tempi diversi, analisi mediate e decisamente più caute. La morte, le guerre, le emergenze umanitarie, le catastrofi naturali e le persecuzioni politiche o religiose, e in generale la sofferenza e i drammi umani, vengono consegnati alla mercé delle piattaforme media e social, senza avere il tempo di essere comprese e rielaborate.
Sulla carta stampata e sul web, le immagini scorrono senza tregua catalizzando l’attenzione per il loro sensazionalismo più che per la reale e tragica portata dei fatti: i tanti schermi della nostra quotidianità, enfatizzano la dimensione spettacolare e voyeuristica dell’immagine, ma sembrano limitarne (o talvolta azzerarne) la capacità critica. E quando si parla di tragedie umane e drammi di portata mondiale, la faccenda diventa molto delicata, più di quanto si possa pensare: la posta in gioco è alta, il rischio è di anestetizzarci sempre di più, illudendoci che quello spettacolo sia altro da noi, quando invece è sempre più parte della nostra vita.
L’atto – naturale, necessario, inevitabile – della morte e della sofferenza umana diventa quasi un pretesto per un passatempo comune, che strizza l’occhio a una forma di patetismo e a un vago senso di compassione, più che a una reale comprensione dello stato delle cose. Contenuti shock che smuovono l’opinione pubblica e la sensibilità del viver comune, appaiono troppo spesso ovattati nel grande show della visione.
Abbiamo tutti presente le immagini, anche quelle più crude, di corpi morti dei migranti (tra cui anche bambini innocenti); abbiamo tutti presente le esecuzioni dell’Isis, i bombardamenti, gli tsunami, i terremoti e le calamità naturali, i genocidi, le persecuzioni, gli attentati terroristici e quelli culturali/religiosi. Ormai sono parte del nostro immaginario, collocati nella sfera della possibile possibilità: sono immagini che dovrebbero colpire ogni volta come pugni in faccia e nello stomaco, ma che, alla fine, per il troppo abuso, riconduciamo più o meno comodamente nel nostro concetto di “normalità”. Quando l’effetto spettacolo si placa, rimane solo il contenitore, in un gioco perverso di progressiva banalizzazione del “male” che in tempi recenti ha visto anche la sterile disputa tra “morti di serie A” e morti di “serie B”, quando poi, in fondo, in ogni civiltà che si rispetti i morti meriterebbero due cose, prima di tutto: silenzio e rispetto, non certo strumentalizzazione.
Il 19 agosto 2014, l’esecuzione del giornalista statunitense James Foley ad opera dell’Isis viene ripresa in un video divampato come un incendio in tutta la rete: la propaganda e la rivendicazione del califfato sono passati principalmente dalla rete e dai social network, mai come prima di allora. Un contenuto shockante che ha indignato all’epoca l’opinione pubblica, fino ad indurre You Tube e Twitter a rimuovere il video, censurandolo, sotto la spinta dell’hashtag #IsisMediaBlackOut levatosi a gran voce dalla stessa rete e da diversi opinion leader. In quel caso, anche se con ritardo, non abbiamo permesso di subire passivamente questa atrocità. Altro sangue nel frattempo è sgorgato, in molti ambiti, con i suoi codici di spettacolarizzazione e macabra viralità. Non lasciamo però che la mediocrità di questo teatrino della contemporaneità prenda il sopravvento sulla nostra criticità. Ma soprattutto sulla nostra appartenenza a un’umana sensibilità.
Serena Vanzaghi
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