Ce la ricordiamo tutti seduta su una sedia, possente Chronos dalle sembianze di montagna, mentre si dava all’Altro dilatando il tempo e donandogli attenzione e amore.
Era il 2010, e Marina Abramović faceva della performance art un brano di vita, che ti scegli e ti concedi. Lei era lì, immobile e forte, dall’anima affascinante. Come nel 1997, con quel Balkan Baroque veneziano dalla potenza estrema, quando si innalzava a espiatrice del dolore e delle colpe umane veicolando concetti universali attraverso il proprio corpo e il proprio sacrifico, in The artist is present diventava un’àncora sulla quale aggrapparsi con lo sguardo, riuscendo a dare valore assoluto al nulla e, allo stesso tempo, alla presenza totale e totalmente dedita. Marina, Caronte amorevole traghettatore di anime e di richiami interiori, era lì per noi. E noi siamo sempre qui per lei, perché sappiamo che è ciò che più ardentemente desidera.
Marina è tornata a noi, ma The space in between è una cosa diversa. È un viaggio intimo e personale per superare una sofferenza emotiva e guarirne, contemplando buddisticamente la possibilità che la felicità non provenga dall’esterno ma da dentro. Lo spazio di mezzo è uno dei luoghi più creativi dell’artista. Nello spazio di mezzo avviene un passaggio di realtà, verso altri livelli di esistenza.
Il viaggio che Marina compie in Brasile, di nuovo dopo più di vent’anni, diventa la metafora di un cammino di purificazione in cui il rituale, che assume forme simboliche e psichedeliche, acquista un significato profondo, rappresentando un atto di trasformazione. Esso conserva le stesse caratteristiche della performance, che ha come scopo quello di confrontarsi con ciò che Abramović chiama io superiore. Si tratta di una trasfigurazione spirituale, catartica, attraverso la quale si accede a uno stadio altro della percezione; e lo si fa partendo dal corpo, strumento, medium, traghettatore anch’esso. Sono concetti che la società occidentale, almeno così com’è diventata, probabilmente non può capire fino in fondo.
Marina, guerriera mitica in abito bianco, si sposta, conosce i luoghi e le persone e si confronta con la loro esperienza, entrando in contatto panico con la natura e con i suoi elementi e tracciando linee invisibili che elevano le distinzioni tra performance e vita. La gente con cui si rapporta ha fiducia verso la terra e crede nel potere dell’energia e dello scambio, come lei. Marina ascolta in loro l’eco degli aborigeni, con i quali aveva vissuto, e dei monaci tibetani. Ritrova le radici dell’esperienza, della fede, della conoscenza; ritrova un po’ di se stessa e del rapporto con il suo pubblico.
Il pubblico è il mio specchio e io sono lo specchio del pubblico. Io dono a loro una parte di me e loro donano a me una parte di loro.
Marina è in mezzo a loro e chiude gli occhi.
In un microcosmo che si concede in antropologica immagine, l’artista mette a nudo il proprio corpo e la propria interiorità, instaurando un dialogo molteplice con sé stessa in momenti di tenerezza e di ironia, mentre il mondo vegetale assurge, insieme, a funzione scenografica e protettiva. Marina si fa abbracciare dall’acqua di una cascata, siede silenziosa di fronte a un paesaggio vuoto e indefinito, tocca incuriosita i prodotti della terra e i minerali, gli oggetti transitori che hanno segnato parte della sua produzione, in una forma d’arte che si fa sempre più immateriale e trascendente.
Marina Abramović è una nomade moderna che non appartiene a nessun luogo ma a tutti.
Davanti a me c’è una grotta. E io vado a esplorarla.
Il suo percorso è partito dal corpo ed è lentamente e consapevolmente arrivato al nulla. È partito dal sé ed è lentamente e consapevolmente arrivato all’Altro.
Ho capito che devo dare al pubblico gli strumenti per poter sperimentare il proprio Io. Io devo solo mimetizzarmi. Il pubblico è l’opera.
Marina è uno sciamano moderno.
Marina è l’Arte.
Cristiana Sorrentino
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