Il lavoro nobilita l’uomo, si sa; talvolta anche l’artista. Il lavoro è anche una faccenda seria, soprattutto in questi ultimi, disperati tempi, nei quali la sua ricerca è diventata sempre più un miraggio. È una faccenda seria anche per il sagace Christian Jankovski, che da tempo ci ha abituato alla sua ironica visione del mondo, riuscendo persino a “trovare” lavoro a Gesù cercandone la sua controfigura nell’esilarante Casting Jesus (2011), e che si è misurato, forse con qualche intralcio, nella curatela della biennale europea a Zurigo, capitale per antonomasia dell’abnegazione al lavoro e della finanza.
L’esperimento socio-economico proposto dal tedesco nel duplice ruolo di artista e curatore, dall’icastico titolo What people do for money, pone le sue basi sulla scelta, obbligata, consapevole o casuale, del lavoro, e dell’interpretazione che i professionisti dell’arte ne hanno dato in seguito ad un periodo di totale immedesimazione in un mestiere diverso dal loro.
Le Joint Ventures, che hanno visto gli artisti identificarsi e prendere letteralmente il posto, con une reciproca e proficua collaborazione, di banchieri, medici, dentisti, professori, modelle, prostitute, psicologi, cantanti, barman, giudici, chimici, investigatori privati, barbieri, hostess, sarti, impiegati nelle agenzie di pompe funebri e nelle forze dell’ordine, hanno permesso l’ampliamento della manifestazione non solo alle principali sedi espositive deputate, come Löwenbräukunst, Helmaus, Cabaret Voltaire e Pavillon of Reflections (il padiglione galleggiante che ha visto camminare sulle acque l’opera vivente di Maurizio Cattelan), ma anche ai cosiddetti “satelliti”, gli spazi effettivi in cui tali lavori vengono abitualmente svolti, dislocati in tutta la città.
Forse proprio questa una delle prime debolezze di questa biennale, non solo dal punto di vista concettuale, ma soprattutto da quello logistico: nella pur completa ed esaustiva mappa degli eventi, peraltro bellissima nella sua minimale grafica in bianco e nero, che disegna le silhouettes delle professioni, e dei professionisti che le incarnano, gli interventi, molto spesso sintetizzati in performances dei mestieri che gli stessi artisti si sono trovati a praticare, o in mimetiche, quasi impercettibili, installazioni, non erano facilmente identificabili, raggiungibili, o comprensibili. Lo strenuo tentativo, nel poco tempo a disposizione, di provare ad incastrare gli orari e e le sedi dove si svolgevano i numerosi eventi ha ceduto infine il posto alla rassegnazione, facendo decidere al caso per me; fortuitamente dopo la visita alla mostra storica ed alle nuove produzioni esposte al Löwenbräukunst, mi sono imbattuta nella stilista canina Jacqueline Meier che, su iniziativa dell’artista belga Guillaume Bijl, era intenta a fare la toeletta ad un cane portato da un cliente, come espressamente indicato nella guida, nella galleria d’arte Grieder Contemporary.
Nella mostra storica, cuore pulsante della manifestazione, che condensa in paradigmatici esempi l’evoluzione del concetto del lavoro, ed anche quello del non lavoro costituto dalla pausa e dal culto dell’otium, tra sfera privata e sfera professionale, l’interazione ed il dialogo con le nuove opere sembra tuttavia debole. Le bellissime foto di August Sander, l’opera concettuale di Bruno Munari, l’installazione di Pierre Huyghe, Duane Hanson, sono giustapposte, talvolta forzatamente, ai lavori commissionati agli artisti per la manifestazione. Tuttavia le profetiche previsioni meteo proiettate da Firmìn Jiménez Landa, che ricordano da vicino le stravaganti predizioni astrologiche di Telemistica dello stesso Jankovski presentate alla Biennale del 1999, le vignette murali Artoons del messicano Pablo Helguera sulla professione del critico d’arte, le disgustose ma affascinanti ossessioni fotografiche di Torbjørn Rødland per l’estetica dentale, offrono comunque un panorama variegato, sebbene non del tutto esaustivo, della più importante sezione della mostra.
Più ludica la sezione artistica ad Helmaus, ma il concetto del lavoro qui si fa più sfuggente e più difficilmente afferrabile: ne rimangono labili tracce nel delicato lavoro del 2001 di Sophie Calle, Twenty years later, che ha presentato il frutto del lavoro di un investigatore privato, da cui è stata volontariamente pedinata, prima per conto di sua madre, poi del suo gallerista; o in quello di Jill Magid, Final Tour (2004), che mostra il viaggio misterioso ma straordinariamente ordinario dell’artista immortalato però dalle telecamere a circuito chiuso della polizia di Liverpool con cui ha periodicamente collaborato.
Anche il Cabaret Voltaire, luogo emblematico di fondazione del movimento Dada, il cui centesimo compleanno ricorre proprio quest’anno, ha cambiato veste per Manifesta con il rivestimento dal sapore decostruttivista dello Studio Alex Lehrner di Zurigo, offrendo uno spazio performativo ulteriore e “spontaneo” per artisti, in cui però la performance ha luogo solo se prodotta da un non-artista. Non filmabile, visibile successivamente nell’esposizione temporanea del Cabaret, la performance sembra tuttavia connettersi alla labirintica e sfuggente serie delle opere “satellite”, forse interessanti, per chi è riuscito ad assistervi, ma inafferrabili nel tempo e nello spazio.
L’esperimento sociologico ed etico, più che artistico, di Jankovski, pur nella sua fragilità, ritrova, proprio nella scelta della città elvetica, capitale mondiale della finanza, del denaro e del lavoro, la sua speranza salvifica, perché, come lo stesso curatore afferma nel catalogo, “professions are about more than earning money”.
SERENA PACCHIANI
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