Il segreto di pulcinella: nella commedia della vita,
non vi è un segreto,
ma solo, in ogni istante, una via d’uscita
Giorgio Agamben – Pulcinella ovvero
Divertimento per li regazzi (consigliatissimo!)
No, noi non siamo uno, ma due…
Vi sbagliate ancora, eccoci multipli,…
arrendetevi, insomma…
Sì, partite, dividetevi in parti.
Michel Serres – Il mantello di
Arlecchino (rivisitato)
Giustizia Mascherata nel secondo episodio della serie tv Watchmen, dopo aver messo ko alcuni malviventi, risponde così al negoziante in preda al panico:
Chi sono io? Se conoscessi la risposta, non indosserei una maschera del cazzo!
La parola maschera proverrebbe dal latino masca=fuliggine, fantasma, strega, già presente nell’Editto di Rotari (22-23 novembre del 643). Nel dialetto piemontese difatti mascara equivale a incantesimo e stregoneria. E’ interessante sottolineare che non è la parola maschera anticamente ad indicare la “protesi” applicata in volto, bensì la parola persona, ossia per-sona nel senso di suonare/parlare attraverso, al posto di. Personaggio qui, incantesimo, apparizione, strega lì. La maschera scardina grandi e piccole identità, mette in dubbio ed è proprio per questo che mantiene un potere straordinario in un mondo dominato dal non verbale, per dirla con Korzybsky.

La maschera è un interviso. Medium inevitabile. Trance al culmine. Posizione superiore perchè sempre e comuqnue al di là. D’altronde chi indossa una maschera non è più lui. Entra di fatto in una dimensione altra. Stato di possessione. Non può essere nemmeno chiamato con il suo vero nome e deve esprimersi con una “lingua” nuova ed incomprensibile. Porta l’intero corpo nel teatro del mondo, smontando ogni connessione col quotidiano. In tal senso è corpoteatro. Comparsa ibernata che macina ad ogni modo multiversi cangianti e agitati all’insaputa del suo stesso portatore (sano). Certe religioni animiste ne sono una testimonianza evidente. Siamo al cospetto di una questione virale.
Ciò che indica non dice.
Tristan Tzara

William S. Burroughs nel suo modus operandi dadaista, detto cut up, riesce a risolvere la drammatica gabbia sociale pirandelliana del Uno, nessuno, centomila. Lo scrittore statunitense affermava:
I cut-up stabiliscono nuove connessioni tra le immagini, e la portata della visione di conseguenza si espande.
Insomma il virus libera ed è l’uica opportunità per non essere impigliati nel gioco dei ruoli sociali. Il travestimento taglia, riconnette, comunque sposta, dilata. L’espansione, la variabilità, l’oscillazione è caratteristica propria della maschera ed infatti oscillare proviene dal greco os=volto e aioreo=sospeso in alto. Oscillo erano delle piccole maschere apotropaiche fissate in alto ad alberi considerati sacri che in effetti si muovevano quando si alzava il vento. Precarietà propria della “rappresentazione” e dell’identità stessa. Ricordate l’uomo misterioso che in Lost highway, capolavoro assoluto di David Lynch, urla a Fred Madison, puntandogli addosso una telecamera e avvicinandosi minaccioso:
E tu invece come ti chiami? Che cazzo di nome hai tu? Il panico di una richiesta banale (forse non troppo) spinge a perdersi per strade perdute dentro di noi, così come accadrà a Fred, sino al suo sdoppiamento a causa della fuga psicogena senza ritorno.

Gabriele D’Annunzio nella sua casa museo La Prioria all’interno del Vittoriale degli Italiani aveva deciso di ordinare lo spazio d’ingresso in due sale d’attesa affrontate e separate, una per gli amici e la seconda per tutti gli altri ospiti e visitatori. In questa sala dedicata agli “scocciatori” campeggia ancora oggi un motto, composto dallo stesso poeta, in lettere dorate:
Al vistatore: Teco porti lo specchio di
Narciso?
Questo è piombato vetro, o mascheraio.
Aggiusta le tue maschere al tuo viso
Ma pensa che sei vetro contro acciaio.
Sembrarebbe che il mascheraio a cui D’Annunzio avrebbe dedicato tale sferzante monito fosse un certo Benito Mussolini che dovette aspettare un paio d’ore prima di poter incontrare il Comandante. Ma veniamo alla maschera che per il poeta è scontro di materia e natura. Pietra, metallo, tessuto, corteccia, argilla, foglie, conchiglie, pelle, carta, carne, vetro, osso. Le maschere sono caratterizzate dalle loro fattezze in tutti i sensi e come tali si/ci prendono, si aggiustano in noi ma molto spesso confliggono con noi. La maschera è un rischio, sempre e comunque. Detour. Spaesamento. D’altro canto la maschera nasconde ma allo stesso tempo rivela. Lo stesso H. Belting affermava, tirando in causa C. Lévi Strauss:
“Una maschera non è principalmente ciò che essa rappresenta”, ma chiama in causa anche tutto ciò che esclude.

In tal senso la maschera non può non avere implicazioni politiche. Possiamo tranquillamente considerarle il primo mega-fono della Storia. Imprimono un’immediatezza disarmante, una riduzione all’essenza che debilita e richiede uno sforzo interpretativo. La maschera s’impone e taglia carne e osso. Scardina l’ordine, qualsiasi esso sia, attraverso l’alterità e la proliferazione di catene associative mutanti. Funziona un pò come un buco in grado di risucchiare linguaggi e significati predeterminati, per sintetizzare infinite possibilità narrative. Indossarla è l’incontro con il rischio, con l’altra parte invisibile dello stare al mondo, quella più oscura. A stare dietro una maschera si finisce col precipitare dentro la maschera stessa. Aderire e perdersi nel radiacale altro. A volte il travestimento si arriva anche a subirlo come segno d’infamia, in virtù del mascariamento (tingere di nero, annerire col carbone), ossia dell’infangare e rendere maschera il prossimo per delegittimarlo e ridurlo ad un’anomalia, ad un pericolo addomesticato.

Il nostro cervello, proprio nei pressi dell’amigdala accoglie una piccola parte detta giro fusiforme in cui avverrebbe il riconoscimento emotivo dei volti delle persone, tanto che nelle persone affette dalla sindrome di Capgras, questa patologia comporterebbe un mancata comprensione emozionale dei tratti somatici di parenti ed amici.
Il caso del film/documentario parodistico Zelig di Woody Allen del 1983 è indicativo, anche se spinge ad una riflessione ulteriore. Leonard Zelig, vittima di una strana patologia, riesce a modificare i suoi tratti somatici, la sua lingua, i suoi modi e i suoi comportamenti, aderendo perfettamente alle persone con cui viene a contatto. Un trasformismo camaleontico che non implica una forma assoluta di empatia, quanto un conformismo parossistico. Il tratto dello smarrimento dell’identità nel circo del mondo non è comunque sinonimo di comprensione e adattamento, bensì di feroce opportunismo cannibalico. Prossimità che si traduce nel camuffarsi e smarrirsi. Nel vero senso del perdersi e dell’incarnare la parte periferica della società. Una poetica del reietto.

Il trionfo degli sconfitti e di più la concrezione assoluta della sconfitta in sè e per sè non può che coincidere con la figura del matto –tanto discusso- Joker. Prendiamo ad esempio l’ultimo lungometraggio di Tood Phillips, in cui Arthur Fleck, un attore fallito, precipita nell’abisso di una società ancora più corrotta e fallita. Il protagonista non riesce a contenere la sua risata eccessiva e sguaiata, così come non riesce a contenere il trucco che lo trascina inesorabilmente verso la sua rivincita sovversiva – “in maschera”. In questa mutazione, Arthur non produce alcun cambiamento, alcun risultato. Arthur è Joker ed essere Joker è inevitabile in un inselvaticamento irresponsabile del mondo e delle relazioni sociali. E’ un destino a cui non ci si può opporre. La redenzione coincide con il reazionario cambio della guardia sul trono ideale del successo mediatico e dell’affermazione sociale e politica. In gioco resta sempre e comunque la visibilità, l’idea covata dietro la materia trasfigurante del mettersi in mostra, di essere riconosciuto in quanto originale. Pia illusione.

In fondo qualsiasi sostituzione dei nostri tratti somatici con alterazioni significative genera riflessione. Mostra e ci svela dettagli del nostro rimosso. Cosa accadrebbe se un’intera popolazione dovesse ricorrere alle “maschere” per proteggersi, per agire, per reagire, per manifestare e persino per svolgere il proprio lavoro? Questo è proprio quanto accade a Tulsa, in Oklahoma nella serie tv Watchmen del regista Damon Lindelof. Il confine tra terroristi, supereroi, criminali, forze dell’ordine risulta oramai collassato, in un futuro prossimo denso di schegge impazzite, estenzioni del nostro presente (come ad esempio le improbabili cabine telefoniche interplanetarie, le bio-tecnologie più avanzate e le automobili che precipitano dal cielo) e rigurgiti di razzismi dilaganti. Potremmo affermare che il vero protagonista dell’intera serie è il mascheramento, ma soprattutto ciò che accade subito dopo aver inibito la propria identità/riconoscibilità. Vero gioiello di questo gioco perverso emerge la maschera di Looking glass-Rorschach, l’agente camuffato da un aderente passamontagna riflettente che si occupa degli interrogatori dei sospetti. Ci troviamo di fronte all’apoteosi del gioco di ruolo, della disintegrazione dell’io, in una vorticosa distorsione del volto altrui che viene dato in pasto ai segreti più reconditi del proprio inonscio. Salto mortale dentro lo specchio di Alice con tanti saluti al bianconiglio.

Un travestimento salva la vita, un altro mette a rischio la vita. Sujatro Ghosh, giovane fotografo indiano, ha ritratto le donne del suoPaese con maschere di mucca, creando una sorta di neo immaginario pagano zoomorfo. Il risultato è una denuncia del radicalismo estremo da regime totalitario dei nazionalisti indù e una riflessione sulla mancata attenzione e rispetto per il genere femminile in India. Minacciato di morte Ghosh si è trovato costretto a doversi trasferire a Berlino per continuare la sua ricerca sulle maschere tra passato e presente.
Stay tuned!
Fabrizio Ajello
In copertina: Una maschera del periodo neolitico, rinvenuta all’interno della grotta di Nahal Hemar, sulla riva del mar Morto

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