Non indugiare sul passato, non sognare il futuro, concentra la mente sul momento presente
Buddha
Come funziona il futuro? A proposito, può avere una funzione univoca e realmente comprensibile dal momento che è sempre al di là, oltre? In che senso ce ne dovremmo preoccupare e come dovremmo intervenire? E se poi scoprissimo che è stato controproducente? Ci siamo dentro, ma ci sentiamo/ne siamo fuori. Il futuro incarna l’entità dell’altrove. Prendiamo il fenomeno del riscaldamento globale, preferisco indicarlo così piuttosto che cambiamento climatico, seguendo la scelta effettuata dal filosofo T. Morton nel suo saggio illuminante Iperoggetti, siamo co-responsabili e attori, ma allo stesso tempo ci percepiamo come ininfluenti gregari di un andazzo in discesa libera verso il collasso. Più si aggravano le condizioni, più paradossalmente alziamo le spalle con uno sconsolato “e io che ci posso fare?”. La crisi, dal greco Krìno – separo/decido, è sempre, che ci piaccia o no, il punto critico di consapevolezza da cui prende avvio l’azione per un movimento puntuale, che focalizza l’hic et nunc, il qui e ora. Così scriveva sul suo L’impresa dei prolegomeni acratici Aldo Braibanti:
Ogni momento della storia è un momento di crisi di sviluppo. Quando perciò si parla di crisi della civiltà, come da gran tempo avviene nella cultura occidentale, (anzi, in tempi più recenti, la denuncia di una crisi ha assunto di nuovo linguaggi apocalittici e persino millenaristici, più o meno giustificati dalle più allarmanti cadute ecologiche), mi viene spontaneo bombardare spietatamente l’uso stesso della parola crisi.
L’intellettuale romagnolo era ben lontano dall’essere un guerrafondaio, ma la sua veemenza chiarisce quanto sia delicata la questione. Siamo talmente in affanno rispetto al futuro che persino nei nostri dialoghi spesso lo evitiamo grammaticalmente: ci vediamo la settimana prossima, invece di ci vedremo la settimana prossima.

Il futuro è uno spazio vuoto. Riempirlo è da una parte un comodo passatempo, dall’altra un antidoto contro le mille(narie) paure che allignano proprio nell’incertezza dell’avvenire. Molte pubblicità ad esempio sfruttano il nostro desiderio di avere concrete assicurazioni che domani sarà meglio di oggi. Tu sei il futuro – Fastweb, Il futuro insieme – TIM, Il futuro è la nostra destinazione – Ferrovie dello Stato italiane, giusto per citarne alcune delle più recenti. Il No Future dei Sex Pistols, parola chiave del punk inglese targato anni settanta, era un’aggressione ad un’idea metafisica e fumosa di “domani”. Una proiezione fintamente luminosa in avanti che veniva soffocata nell’autolesionismo. Il corpo si trasformava allora in affermazione di un presente che non consente compromessi. Non a caso nell’ultima fatica Crimes of the Future di David Cronenberg, ambientato in un potenziale futuro distopico, il dolore è scomparso e questa “conquista”/evoluzione inattesa e sconvolgente non fa che peggiorare le cose per il genere umano. Quali potrebbero essere i crimini del futuro in effetti? E in ogni caso porsi questa domanda implicherebbe avere per lo meno coscienza di quelli commessi nel presente, oppure è una fuga in avanti per evitare di affrontare i danni dell’odierno? In fin dei conti siamo esseri fragili che si credono in grado di avere il controllo della situazione, ma le cose non stanno affatto così e spesso gli avvenimenti ce lo ricordano senza tanti sconti.
Rebecca Solnit scriveva qualche giorno fa sul suo profilo Facebook:
[…] dobbiamo prepararci all’inaspettato. Presumere di sapere cose che invece non sappiamo significa partire con una mappa sbagliata. Sapere cos’è che non sappiamo è una parte fondamentale della conoscenza e forse l’inizio della saggezza. Se si vuol essere sicuri di se stessi, la fiducia nell’incertezza è un’ottima opzione ed è sempre possibile.

Se prendiamo in considerazione il futuro come potenziale via di fuga (da un presente drammatico) in un’epoca che ha azzerato l’altrove, grazie soprattutto a device minuscoli in grado di connetterci illimitatamente, interagendo con il mondo, il gioco è fatto. Nel 1896, Warburg scriveva:
il telegrafo e il telefono distruggono il cosmo. Il pensiero mitico e il pensiero simbolico, lottando per attribuire una dimensione spirituale alla relazione dell’uomo con il suo ambiente, hanno fatto dello spazio una zona di contemplazione o di pensiero, spazio che la comunicazione elettrica istantanea annienta.
Probabilmente più che di annientamento, mi sembra che la questione sia stata quella di una sostituzione: dalla zona di contemplazione/pensiero si è passati ad uno spazio di agitazione e di privazione. Si tratta di un girare a vuoto senza tempi/spazi intermedi in una società inutilmente pre-vidente. A tal proposito mi torna alla mente un passo di Rilke, cito a memoria: ciò che accade possiede un tale anticipo su ciò che pensiamo, sulle nostre intenzioni, che non possiamo mai raggiungerlo, né conoscere la sua vera apparenza. Forse è tempo di sconnettersi dall’accelerazione centrifuga di uno scorrere spasmodico imposto per riconnettersi al corso effettivo delle cose, dello shun orientale. Riconnettere tempo e spazio, ricucire futuro e presente, rallentare e perdere la soggettiva del nostro punto di vista, per accordarci ad un’essenza che non è esclusivamente umana, tangibile, materiale e limitata. Il “pensiero del” futuro influenza il presente tanto quanto il passato (il virgolettato è un mio inciso) – F.W. Nietzsche.
Fabrizio Ajello
In copertina: FabrizioAjello+Middjourney, WDWGN?-wheredowegonow? 2022