La cultura è ciò che gli altri mi hanno fatto,
l’arte è ciò che faccio io agli altri.
Carl Andre
Uno dei carnevali più cupi della storia questo, che stiamo soffrendo e attraversando in una tensione bellica che rilancia l’intero pianeta in un tetro Novecento che speravamo digerito, anche se a fatica. Invece, placata la bufera pandemica ecco il conflitto che non ti aspetti (ne siamo sicuri?). Una guerra ibrida ed erroneamente ritenuta periferica. Artiglierie pesanti, trincee, bombe a grappolo, cyber attacchi, propaganda e sanzioni, il braccio di ferro tra i due blocchi a comparti sempre meno stagni si è arenato in una palude definitiva, stallo paralizzante di una vicendevole miopia da parte delle singole forze in campo. In un’era di ipertrofica comunicazione la sensazione è che non riusciamo più a dialogare, a trovare il punto di contatto. L’empatia sembra essere stata sostituita una volta e per tutte dal chiasso martellante del diluvio informatico. Mi chiedo se e come sia possibile accostarsi e comprendere quel che accade attorno a noi. Con sconfortante sincerità, devo ammettere che è sempre più difficile, molto spesso impossibile. Finale di partita? Dovremmo riconfigurare i nostri sistemi analitico-valoriali e riconsiderare scenari e panorami differenti? Molto probabilmente è proprio così, siamo inadeguati. Grosso modo ognuno a modo suo; …il prezzo che paghiamo per la conoscenza è la perdita della nostra capacità di comprensione, affermava Benjamin Labatut nel suo La pietra della follia. Il futuro sarà da de-algoritmizzare e de-socializzare, per ricostituire il valore del singolo e della comunità.

Non c’è Futuro, inconsistente ora/ Non c’è Passato che significhi ancora/ Niente che valga il buio del presente/ Il buio del presente, così cantava G.L. Ferretti in Neukölln, anno di grazia 2000. Si concludeva il secolo breve e doveva essere chiaro il messaggio. Ma questo chiarore deve aver avuto un effetto collaterale di cecità assoluta. Così i pensieri procedono in ordine sparso, senza più mira, intensità, fatica. Chiunque può esprimersi in pieno disordine, metavertirsi, precipitare nel divertimento che spaesa e spodesta la vita per sostituirvi lo stupore del palcoscenico scosceso e sovraffollato. La zattera della medusa su cui siamo confinati con i nostri follower è alla deriva senza avere orizzonti disponibili attorno. Giorgio Manganelli nel 1990, proprio prima della sua morte, scrive il suo ultimo romanzo La palude definitiva, il viaggio fatale di un cavaliere e il suo destriero all’interno di un luogo in cui è difficile entrare e impossibile uscire. La traversata del protagonista di questo romanzo si amplifica in un’interrogazione sconfinata in cui vagano parole nello smarrimento senza via d’uscita. E’ come se tutto il mondo fosse sospeso. Un disorientamento che coincide con l’mponderabile, lo sconfinare oltre i bordi del consentito, del programmato, nell’angolo cieco spazio temporale da cui non si torna indietro. Alla fine della vicenda tutto si ricompatta in un unicum tracollante e consumato. Palude, cavaliere, casa, destriero coincidono nell’insensata vanitas delle imprese intentate. Ascesa lenta per catabasi immediata e definitiva. La stessa sensazione che accompagna l’ascolto ossessivo che mi accompagna in questi giorni del De Profundis di Arvo Pärt.
