S’era messo a tremare, sperduto, con un brivido per ogni vago alito indistinto
nel silenzio arcano che riempiva la sterminata vacuità, ove un brulichio infinito di
stelle fitte, piccolissime, non riusciva a diffondere alcuna luce.
Luigi Pirandello, Ciàula scopre la luna
Nulla è più indeterminato e infaticabile del sottosuolo, dell’interno, dell’invisibile. Lì cova il brulicare della trasformazione. Grandi caverne vengono scavate segretamente dove dovrebbero bastare i pori della terra, e cose che dovrebbero strisciare hanno imparato a reggersi in piedi, così scriveva H.P. Lovecraft. Tutti noi abbiamo “una creatura del sottosuolo” con cui dover convivere e fare i conti da qualche parte, all’interno di meandri bui e vischiosi. Una creatura solitaria e plurale che circola tra le ombre interiori e fa capolino talvolta, prendendo a prestito la nostra fisionomia. A tempo scruta, agisce, per rituffarsi nel profondo labirinto delle nostre viscere. Anche Dostoevskij sosteneva, nel suo capolavoro spartiacque per la sua produzione letteraria, Memorie dal sottosuolo, che l’essere umano è affetto da un senso di profonda sofferenza e autolesionismo che la ragione non riesce a stemperare e arginare. Torna alla mente la leggendaria performance del 1972 Seedbed in cui Vito Acconci, mormorava fantasie erotiche mentre si masturbava proprio nell’intercapedine costruita ad hoc tra il reale pavimento della Sonnabend Gallery e una pedana che accoglieva il pubblico. Richiami, desideri, fobie. Sia che si tratti di viscere concrete o di abissi immateriali. Cosa si agita dentro?

Gli enigmatici capovolti delle civiltà antiche, presenti in buona parte dell’area mediterranea, raccontano di frequentazioni ipogee e di riti inghiottiti dal tempo. Raffigurazioni raffinate e ambigue a guisa di tridente rovesciato accertano la vitalità del regno sotterraneo e l’imperituro rapporto con l’esistenza superficiale. I primi santuari non erano forse intimi rifugi celati ai più, dove sacrificare e cercare di intercettare e placare entità ultraterrene ed infere? Nella serie The Underground Railroad, tratta dall’omonimo romanzo del 2016 di Colson Whitehead, il sottosuolo è ovunque e ci scruta e ci inghiotte. La trama si stringe attorno alla fuga di due schiavi da una piantagione della Georgia, ma sin dalle prime immagini siamo noi ad essere risucchiati in precipitamenti. Diventiamo da subito testimoni di seppellimenti concitati (di una placenta ad esempio…ancora l’interno che racchiude a sua volta una vita), di cunicoli misteriosi, sino ad essere esposti al grado zero dell’immedesimazione, quando la camera ci porta dentro il corpo dello schiavo arso vivo, per imporci la visione del mondo dai suoi occhi durante il supplizio. Siamo lì. Nella profondità che ci fissa e che ci sussurra dell’impossibile e del probabile, un pò come accadeva con i pozzi del capolavoro Il poema dei lunatici di Cavazzoni, tanto amato dal grande Fellini. Porgiamo dunque l’orecchio alle cavità eloquenti, tanto sottile e disperato è il loro fragore.

In fondo si tratta di rumori di fondo. Voci fuori campo. Interferenze e singulti tellurici, che attraverso le soglie di nascondimento e rivelazione, come fessure, orifizi, voragini, imperfezioni, ci dispiegano lo smarrimento dall’ordinario, inchiodando la linea di confine orizzontale alla verticalità, al celato, alle possibilità di fuga, non di meno allo smarrimento, al precipitare. Il profondo partecipa al suo doppio opposto e speculare. Non c’è altezza senza radice. Anche se il vuoto divora il pieno, il pieno banchetta con il vuoto…ogni attività del pieno appare come una tattica per occultare il vuoto e appropriarsene, come un programma per abitare il vuoto, sistemare il vuoto risucchiandolo nell’economoia delle superfici, questa una delle brillanti riflessioni di Reza Negarestani, nel (suo?) testo visionario Cyclonopedia. D’altronde buona parte delle serie cult tra i giovani giocano costantemente su questa dialettica tra sopra e sotto, tra questa e l’altra dimensione, che guarda caso viene sempre collocata in un universo ipogeo: Stranger Things, Locke and the key sono due fulgidi esempi. Decadenza e rovina si nutrono della vita superficiale e tentano di insinuarsi sino a dilagare, portando con loro una sorta di caos primordiale, alimentato spesso dalle nostre paure e dai nostri desideri più segreti e irrazionali.

D’altronde il bacino fermentante del rimosso si adagia nel recondito sottostante. Velvet Underground. Questo il titolo della irriverente (per l’epoca – 1963) pubblicazione del giornalista Michael Leigh, che presentava pratiche di bondage, sesso di gruppo, sado-masochismo, con tanto di dettagli e contatti di magazine e clubs di riferimento. Il titolo del bizzarro libro di Leigh, trovato casualmente per strada da un giovanissimo Lou Reed, diverrà il nome di uno dei più importanti ed influenti gruppi musicali di tutti i tempi, per l’appunto i Velvet Underground. Vortici e spirali del piacere estremo, del godimento e della lussuria patinata che si consuma nei retroscena delle notti ribelli. Non è un caso che Eros e Thanatos fossero inscindibilmente legati nella cultura greca e che vortici e spirali si ritrovino in buona parte delle sepolture dei popoli antichi, dai Celti, ai Mesopotamici. Sono rappresentazioni molto probabilmente della circolarità delle stagioni, del processo di nascita-morte-rinascita dei pianeti nel firmamento e delle nostre esistenze. L’artista Matthew Barney rielabora proprio questo concetto nel suo River of Fundament, attraverso un processo alchemico e visionario di morte e reincarnazione dello scrittore Norman Mailer, traendo proprio spunto dal suo capolavoro narrativo Ancient Evenings, incentrato su digressioni storico/fantastiche riferite all’antico Egitto all’epoca di Ramses II. Il passato come profondità e rifugio, come dilatazione del tempo e margine estremo di pulsioni, come digressione e via di fuga. Tutto questo e molto altro ritorna nella giostra ubriaca del capolavoro Underground del regista bosniaco/serbo Kusturica, nel quale il tempo storico della seconda Guerra Mondiale viene sospeso da una geniale trovata per poi frantumarsi e andare alla deriva nell’accelerazione generata dall’incontro tra il piano sotterraneo e quello superficiale. Molto si agita nel profondo, e voi cosa scorgete oltre i bordi?
Fabrizio Ajello
In copertina: Coppo di Marcovaldo, I dannati e l’Inferno – 1260/70 ca.