8 aprile 2020. La promessa è materia sacra e, come promesso, l’Uomo nero torna a indagare, scandagliare e riconnettere le dinamiche e le frequenze degli immaginari quotidiani. Al solito a “briglia sciolta” incidendo e mescolando discipline e ambiti distanti, verranno smontati e rimontati i nostri modelli percettivi per gettare uno sguardo dietro e dentro l’Immagine.
Abbiamo confuso l’immagine con il visibile.
James Hillman – L’ultima immagine
Niente. Questo dipinto del Cagnacci mi ha sempre messo a disagio. Non per il soggetto, né per la fattura, ma c’è qualcosa che si agita nello spazio che l’artista ha imposto tra il volto reclinato di Cleopatra e lo spettatore. Lì si esercitano delle forze a cui resisto a stento. E’ uno spazio dalle geometrie semplici, interdette, magnetiche. Ieratico e sensuale il corpo riluce in una recente decadenza. Un abbandono circolare, ma c’è di più. Molto di più di questo. Infatti il dipinto in questione ha un’altra caratteristica: mi riporta sempre alla mente il film Dead Man di Jim Jarmusch. Ma cosa connette questi due lavori così distanti? E soprattutto perchè questa immagine del Cagnacci si agita dentro me ancora prima che io torni a guardarla? Da dove provengono e che cosa incarnano le ombre in queste opere? Ha un nome questa intemperie emotiva che viene spesso indicata col termine di sublime?

Sub-limes, dal latino sotto la porta, il limite, indica ciò che si trova attaccato all’architrave, ossia posto in alto, elevato. Sublime indicherebbe quindi qualcosa che s’innalza assai, fino alla soglia consentita, che si stacca nello spazio dai restanti oggetti. Soprastante, prende distanza. Ma allo stesso tempo questa dimensione dell’altezza vale anche in senso di rovescio. Eccelso ed eminente quindi anche in profondità. In alcuni dizionari etimologici si trova inoltre la dicitura: e più che la natura delle cose pare che indichi un’operazione dell’arte. Ma cosa sarebbe di preciso questo qualcosa? E perché viene continuamente specificato che si tratti di un’operazione dell’arte? Questo qualcosa non si identifica con il bello, ma con ciò che sorprende, turba e talvolta arriva a sconvolgere. Emerge questa indicazione sin dal più antico trattato (I sec. a.C.) anonimo sul tema dal titolo Trattato del Sublime. Ma persino in questa indagine sul sublime, si investiga la creazione artistica e in modo particolare la letteratura. Allora possiamo concordare che questa tensione sia propria di un’operazione dell’arte più che della natura delle cose? E l’operazione artistica funge dunque come una sorta di “trappola” per intercettare proprio quel qualcosa che ci sfugge? Forse che il sublime oggi risieda nella sospensione, nell’imprevedibile che determina un’ altra dimensione oggi sempre meno esplorata ed esperita?

Allora il soggetto è una specie di esca? incalza David Sylvester in una delle famose interviste al pittore irlandese Francis Bacon e la risposta è lapidaria: il soggetto è l’esca. Ancora una volta viene tirata in ballo la “trappola” che scatta a catturare, ma anche qui a catturare cosa di preciso? Forse proprio quel qualcosa di liminale, di elevato, di generante altro? Nella pellicola di Richard Kelly Donnie Darko del 2001 il soggetto è proprio l’esca. La trama scorre rivelando una storia horror-fantasy intrigante ma per certi versi classica e riconoscibile nei clichè del genere. Ed è proprio attraverso questa modulazione narrativa che la trappola viene innescata attraverso una vera e propria corruzione di universi instabili nei quali il futuro e il passato non sono allineati e cronologicamente esatti. Insomma l’intero film sarebbe un’anomalia spazio temporale, conosciuta come ponte di Einstein-Rosen o wormhole (buco di verme), e il protagonista (ricevitore vivente), con l’aiuto di alcune figure, come ad esempio Frank (manipolato morto in un universo tangente) dovrà cercare di risolvere questo paradosso, per “rimettere il tempo sui binari”. Il paradosso sarebbe stato generato proprio da un motore di un aereo, che decollerà nel futuro, precipitato dentro casa di Donnie sul suo letto, senza colpirlo, dal momento che durante l’impatto il ragazzo si trovava altrove. La scissione o meglio questa particolare corruzione dello spazio-tempo apre ipersuperfici e inter-universi dove per l’appunto si agita qualcosa.

Love will tear us apart cantava Ian Curtis e uno dei primi versi di questa straordinaria canzone, guarda caso colonna sonora di Donnie Darko, conferma che: And we’re changing our ways, taking different roads. Lo spostamento spazio-temporale diverge e distorce facendo collassare i piani e le strutture. La forza/causa di tutto questo per il cantante dei Joy Division sarebbe l’amore e a dire il vero non è l’unico a pensarla così. Il sommo poeta Dante Alighieri conclude la Divina Commedia con il celebre verso L’amor che move il sole e l’altre stelle. Siamo nell’ultimo canto del Paradiso e molto probabilmente oltre a volerci indicare come Dio sia allo stesso tempo Amore, Conoscenza e Movimento perenne (e Solitudine per certi versi) Dante potrebbe averci indicato proprio come l’amore che genera vita e moto, sia anche scissione, distanza e in un certo senso dolore. Risulta indicativo come persino in una delle opere più importanti della letteratura mondiale i piani spazio-temporali possano essere instabili. Sogno, visione, rivelazione e narrazione di ritorno fanno della Divina Commedia una trappola in cui si rivela il sublime nel suo carattere più ambiguo, elevato, drammatico e assoluto, scardinando l’idea stessa che possa esistere un universo soltanto. L’immaginazione è sempre più potente della realtà e mi dispiace dover contraddire Woody Allen che in un celebre film affermava: fortunatamente, secondo la moderna astronomia, l’universo è finito: un pensiero consolante per chi, come me, non si ricorda mai dove ha lasciato le cose.
Fabrizio Ajello
In copertina: Guido Cagnacci, Cleopatra – 1660 circa
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