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L’uomo nero/Dinamiche dell’immaginario #10 – OldWildWest

L’esperienza dell’abisso è nell’abisso e fuori di esso
Édouard Glissant

Se il Grande Spirito avesse voluto che noi
vivessimo sempre nello stesso posto,
avrebbe lasciato fermo il mondo.

Proverbio dei Navajo

Il selvaggio west è dentro di noi, mettiamoci il cuore in pace. Noi tutti siamo stati posseduti (ed in parte lo siamo ancora) dal demone esplorativo della scoperta-conquista. L’essere pionieri sembra da sempre una questione di DNA. Carattere radicale innestato all’origine dei tempi. E’ lì, da qualche parte nel profondo buio del nostro tronco cerebrale. Nel labirinto del nostro sistema bicamerale di pensiero. Silenziosamente, proprio lì, una pulsazione elabora, produce e proietta uno spazio altro, in cui opportunità e pericolo si mescolano in un’avventura che incarna in effetti, il senso stesso dello stare al mondo. Si tratta, di certo, di un luogo metaforico, ideale, per certi versi un vero e proprio incubatore/propulsore. Dove tramonta il sole, visioni, desideri e incubi ci sussurrano di un futuro intermittente, suadente e terribile nello stesso momento.

Madonna, Don’t tell me – 2000

Per certi versi l’intera iconografia sul selvaggio west proviene dai diari dei due esploratori Meriwether Lewis e William Clark che dal 1804 al 1806, per volere del presidente Thomas Jefferson, attraversarono la Louisiana e i territori più remoti sino all’Oceano Pacifico. Il resto è stato un continuo riadattamento prima letterario, poi fotografico, cinematografico ed estetico nel senso più ampio, a quanto pare inesauribile. Il genere Western non sembra conoscere crisi. Romanzi, film, documentari, cartoni animati, gadgets, mostre, serie tv, giocattoli, un vero e proprio pozzo senza fine. Immaginario sterminato dalla ripetizione stereotipata, con vertici mirabolanti, come ad esempio, proprio nel cinema, John Ford, Sergio Leone, Sam Peckinpah, giusto per tirare in ballo qualche nome.

West and Soda di Bruno Bozzetto

D’altronde i mondi di frontiera sono perfetti per generare eroi, avventure, leggende e quindi prodotti appetibili per consumatori incalliti. Selvaggio West=Cowboy. Il pensiero corre subito alle campagne pubblicitarie delle sigarette Marlboro, nate come prodotto femminile e trasformate, a causa dei drammatici dati sui pericoli del fumo negli anni ’50, in prodotto maschile, attraverso il motto di Cesare veni vidi vici, stampato sullo stemma del pacchetto e lo stereotipo del vero macho dell’epoca. Lo sguardo altrove, maschile o femminile che sia. In alto, verso destra, a seguire il nostro percorso visivo verso un futuro ideale. Siamo invitati, nel flavour, termine che in inglese significa sia gusto ma anche idea o esperienza immediata di qualcosa. Il sogno, l’oltre, l’altro. Il colore rosso, tipico del bocchino della sigaretta Marlboro che evitava la macchia di rossetto, diventa la predominanza della supposta intraprendenza maschile, del sanguigno, della carne, dell’Old Wild West. Il pericolo è sempre e comunque ammiccante. Vende bene. Scinde, mette l’accento sul piano del desiderio, dell’imponderabile, dell’ignoto.

Due campagne pubblicitarie della Marlboro

Lo stato d’incertezza e di sospensione tra passato idealizzato e futuro indefinito conferma una connessione diretta tra dubbio, ricordanza, nascita e anche corruzione della coscienza. Leopardi nel 1829 era riuscito a sviscerare la condizione sospesa tra passato e presente in 173 endecasillabi sciolti, in cui la critica urticante al natio borgo selvaggio (eccolo nuovamente) si trasforma in una conferma di dolore per la rimembranza acerba. Rimembrare è un termine caro alla poesia italiana. Viene utilizzato da Dante, Petrarca, Foscolo e chiaramente il rimembrare è corpo, carne, incarnazione. Non è un caso che ram-ment-are sia restituire alla mente, ri-cord-are sia restituire al cuore e ri-membr-are sia restituire alle membra. Nulla di etimologicamente confermato, il rapporto tra rimembrare e membra, sembra sia più una questione di memoria totale, ossia di un ricordare con l’intero sistema percettivo del corpo umano.

Ricordare… ricordare è come un po’ morire. Tu adesso lo sai perchè tutto ritorna, anche se non vuoi.
E scordare… e scordare è più difficile. Ora sai che è più difficile, se vuoi ricominciare
Angelo Branduardi

Alejandro Jodorowsky, El topo – 1970

Definita “un’oscura odissea sull’alba della coscienza artificiale e sul futuro del peccato“,  la serie fantascientifico-western Westworld coagula queste tensioni e domande esistenziali attualissime, in una sovraincisione di piani narrativi e spazio temporali, disarmante. Che cosa è la mente? Da dove proviene la qualità umana della coscienza? Chi è il Creatore all’interno del gioco della creazione? Che ruolo ha l’insubordinazione nei piani del Creatore?  L’intelligenza artificiale quanto la robotica cognitiva sono l’avventura del futuro, ma forse anche, lo strapiombo di un’umanità ormai stanca e insoddifatta. Avventure del genere, nei meandri più remoti della Creazione, con tutte le conseguenze del caso, non possono che terminare nel sangue, tanto che la protagonista Dolores continua a ripetere con drammatico abbandono:

C’è qualcosa di sbagliato in questo mondo.
Le sue violente delizie hanno esiti violenti

Dolores nella serie tv Westworld

La trama di Westworld si potrebbe semplificare così: in un futuro imprecisato, in uno dei sei parchi a tema (nello specifico quello de selvaggio west), dove persone facoltose (gli ospiti) possono vivere un’esperienza unica senza limiti, in relazione con androidi perfetti in tutto e per tutto (i residenti), qualcosa comincia a non funzionare. I ruoli prendono a franare, quando i residenti sviluppano una coscienza che determina in loro una violenta crisi d’identità, mentre si susseguono colpi di scena che rimettono in discussione valori e relazioni. Pietre angolari dell’intera vicenda si rivelano il labirinto (proiezione del nostro cervello)-gioco (perversione reiterata), e il creatore dell’intera operazione narrativo esperienziale, Robert Ford (cognome-riferimento alla catena di montaggio, tanto quanto al già citato regista western).  Ma, al di là dell’articolatissimo intreccio, uno dei punti di maggiore interesse della prima stagione di questa serie è l’idea del selvaggio west proprio come spazio dell’inatteso, della scoperta, del pericolo, ma anche come spazio del rimosso. Un intero mondo spazzato via e pesantemente manipolato dall’uomo bianco, viene ri-creato sotto forma di parco dei divertimenti, per permettere di perpetrare all’infinito lo scempio di una spietata corsa all’oro, in terre vergini a scapito proprio di residenti ignari, pronti ad essere riprogrammati e reinseriti in un set sterminato, dopo essere stati sottoposti a violenze di ogni genere, sino alla morte.

Pieter Bruegel il Vecchio, La parabola dei ciechi – 1568

Luigi Pirandello, nel romanzo Il fu Mattia Pascal aveva teorizzato la crisi esistenziale delle marionette di un teatrino, ostinatamente soggette alla medesima rappresentzione, attraverso un inatteso strappo del cielo di carta che le avrebbe svincolate dalla ripetizione, mandando in frantumi ogni loro certezza. Una sorta di “follia” sarebbe dietro l’angolo. Il pensiero disperde la tensione dell’azione. L’eroe tragico e risoluto, come Oreste, in un attimo, crollerebbe nelle perplessità distrattive di Amleto. Dall’azione mirata al disastro complessivo in un solo attimo. Così Pirandello:

Beate le marionette su le cui teste di legno il finto cielo si conserva senza strappi! Non perplessità angosciose, né ritegni, né intoppi, né ombre, né pietà: nulla! E possono attendere bravamente e prender gusto alla loro commedia e amare e tener se stesse in considerazione e in pregio, senza soffrir mai vertigini o capogiri, poiché per la loro statura e per le loro azioni quel cielo è un tetto proporzionato.

Daniel Richter, The message – 2014

In effetti il finto cielo protegge ed anche se artificiale, è uno schermo che simula uno sfondo, ripara, tiene al sicuro ma inscatola ed espone ad altri rischi. Il significato della parola schermo proviene dal tedesco skerm/skirm, ossia scudo, riparo, difesa. Quindi ne possiamo dedurre che la superficie che ci separa, ci sovrasta, ci conserva, in fin dei conti è il presupposto di una relazione, non sempre pacifica, s’intende, ma sempre e comunque una connessione generativa. Potremmo aggiungere che essa è necessaria per interagire con il mondo sensibile. Ogni processo relazionale parte da questa messa in discussione, dalla dialettica della diversione, per dirla con Édouard Glissant. Ed è proprio questo uno dei mali del nostro tempo: la mancata comprensione profonda (e il rispetto) delle differenze.  Dovremmo riscoprire l’irrequieta vitalità della divergenza, del nomadismo e decidere di abitare a tempo, comodamente, tutte le nostre paure e la nostra personale, imprevedibile periferia del labirinto.

Fabrizio Ajello

In copertina: L’uomo toro nella serie Westworld

About the author

Fabrizio Ajello

Fabrizio Ajello si è laureato presso la Facoltà di Lettere e Filosofia di Palermo, con una tesi in Storia dell’Arte Contemporanea.
Ha collaborato in passato attivamente con le riviste Music Line e Succoacido.net.
Dal 2005 ha lavorato al progetto di arte pubblica, Progetto Isole.
Nel 2008 fonda, insieme all'artista Christian Costa, il progetto di arte pubblica Spazi Docili, basato a Firenze, che in questi anni ha prodotto indagini sul territorio, interventi, workshop e talk presso istituzioni pubbliche e private, mostre e residenze artistiche.
Ha inoltre esposto in gallerie e musei italiani e internazionali e preso parte a diversi eventi quali: Berlin Biennale 7, Break 2.4 Festival a Ljubljana, in Slovenia, Synthetic Zero al BronxArtSpace di New York, Moving Sculpture In The Public Realm a Cardiff, Hosted in Athens ad Atene, The Entropy of Art a Wroclaw, in Polonia.
Insegna materie letterarie presso il Liceo Artistico di Porta Romana a Firenze.

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