Memecult inaugura una nuova rubrica a cura di Fabrizio Ajello dedicata alle frequenze e alle dinamiche degli immaginari contemporanei. Un’indagine “a briglia sciolta” sul potere delle immagini e delle loro conseguenze sul nostro metodo di giudizio visuale e valoriale. Come vediamo realmente oggi le cose? Il primo capitolo è incentrato sul potere intrinseco (ed esplicito) del “gesto”. Buona lettura…
L’immaginazione è l’istmo tra la vita e l’estinzione, fra notte e giorno, inganno e verità. Elémire Zolla
Come vediamo oggi? Cosa guardiamo in verità quando fissiamo il nostro sguardo? Su cosa ci soffermiamo? Come selezioniamo il nostro catalogo quotidiano di immagini? In che modo le mettiamo in connessione tra loro? Di cosa ci parlano? Come le usiamo una volta registrate? Quali sono gli immaginari odierni? Cosa succede veramente quando guardiamo? Come funzionano i tessuti visuali attraverso i quali conformiamo e deformiamo le nostre esistenze? E inoltre cosa succede quando sono le immagini stesse a guardarci, aprendosi a noi? Il selfie perfetto dell’astronauta Aki Hoshide ci introduce in uno spazio rappresentativo distante ma ormai più che familiare (immagine in copertina).

E’ possibile localizzare tutto ciò? Dove si situa la distanza, ammesso che esista ancora uno spazio “tra”? Distanza spazio/temporale ma soprattutto esistenziale. Da un lato distanza come destino sempre nel rischio della profondità, dall’altro mappa in quanto tavola sacra, piuttosto che rappresentazione spaziale. Cosa ci si apetta del domani? Cosa ci assicura l’attivismo visuale che rovina nella rivoluzione perenne senza sbocchi? Di cosa ci si può ancora occupare? Gli angoli bui della percezione visiva come contraddizione in termini.

Il gesto ad esempio offre ampi spazi di manovra. Gesto generativo, gesto degenerativo, gesto supremo, gesto offensivo, comunque sia gesto che condanna. Il gesto è e resta un paradigma instabile, magnete plurisemico, chiodo visivo che ci fissa nel vero senso della parola. Questo accade nello spazio assoluto dell’icona sacra tanto quanto nella configurazione della rappresentazione di un atto di cronaca, come ad esempio negli scatti che ritraggono il killer di Christchurch Brenton Tarrant, colpevole di un attentato all’interno di due moschee in Nuova Zelanda.

Dall’aula di un tribunale ai bassifondi dei gaglioffi del Barocco, come nel caso del Bravo che fa il gesto della fica, dipinto anonimo ed estremo nella sua crudezza: siamo quindi sotto scacco; prendendo la mira un malessere lontano ci tiene sotto tiro e ci inghiotte nel suo universo, che non è altro che il nostro in potenza. Così a volte nel negare la singolarità del malefico, il male si trasforma all’istante in collettivo. L’atto segnala sempre un’eloquenza che ci inchioda alla nostra essenza. All’essere appartenenti ad una rivolta inevitabile in difesa del più vago dei futuri immaginabili. L’indefinito non tutela, precipita l’intera umanità in se stessa. Come in un capovolgimento di senso la maschera drammatica si riempe della prepotente varietà semantica del gesto. Una chiamata in causa collettiva e disarmante. Ogni gesto è un universo di storie e una ridefinizione dello stare al mondo e proprio per questo siamo soggetti e oggetti, che ci piaccia o no, alla sua ambigua spregiudicatezza. Il che non può che renderlo eterno e implacabile.
Fabrizio Ajello
Immagine in copertina: American_EVA_b3 Aki Hoshide
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