Sebbene ancora oggi, dopo secoli di storia del mondo, sia quasi impossibile definire “cosa” sia l’amore, è ormai invece chiaro a tutti “come” è l’amore: agrodolce. Mai puro al 100%, imbevuto di quella miscela pungente di piacere e dolore, razionale e irrazionale, paradiso e inferno. Insomma è un po’ Yin e un po’ Yang, i due spicchi del Tao che racchiudono tutta la saggezza della filosofia orientale fin dai tempi antichi.
Questo è esattamente lo spirito con cui andrebbe visitata la mostra “Love”, curata dal genio di Danilo Eccher, che dopo l’edizione romana al Chiostro del Bramante resterà alla Permanente di Milano fino al 23 luglio 2017. Una rassegna che fa della provocazione il suo punto di forza non solo a livello curatoriale e di contenuti, ma anche per alcune scelte organizzative di grande efficacia. A cominciare dalla comunicazione leziosa e ultra froufrou che invade gli scaloni laterali d’ingresso: cartelli a cuore specchiati con dediche personalizzate per i selfie, citazioni e aforismi sui muri, divani a forma di voluttuose bocche. O ancora, l’audioguida con una voce a scelta tra cinque personaggi simbolo della cultura pop del XX secolo: David Bowie, John Kennedy, Amy Winehouse, Coco Chanel o Lilly il cocker della Disney.
Chi ha lo stomaco per superare tutto questo, potrà finalmente entrare nel pieno spirito di Love, che invece strizza l’occhio al nostro lato più cinico e disilluso, ci provoca, ci confonde, e alla fine termina lasciandoci in bocca un sapore, appunto, agrodolce.
Un’ondata di allegria ci investe appena varchiamo la prima sala, quella che ospita le tre sculture iconiche “Love” e “Amor” di Robert Indiana ispirate alla grafica pubblicitaria e commerciale della New York anni ‘60, il cui azzurro confetto e rosa ciliegia sprigionano una carica emotiva contagiosa. A pochi passi di distanza trionfano due grandi bocche metalliche avvolte nel fumo di sigarette premute tra dita con unghie laccate di smalto: è Tom Wesselmann, esponente della Pop Art, che ci parla dell’amore sensuale e carnale, morbido ma resistente come l’alluminio, o assuefacente come la nicotina. Wesselmann divenne celebre per i suoi “Great American Nudes”, collage a sfondo erotico che univano olio, smalto e disegno, prodotti a partire dal 1961 e ripresi poi negli anni ’90 con il titolo di “Sunset Nudes”, di cui troviamo qui “Two legs up”. Nella stessa stanza lo affianca Andy Warhol con l’opera “One Multicoloured Marylin”.


Percorrendo la mostra, cresce in noi la sensazione di viaggiare su un binario parallelo, oscuro, irrazionale: l’altra faccia dell’amore. E quel binario ci porta ora dentro un camerino completamente buio in cui viene trasmesso in loop il video della canzone “Sorrow will conquer Happiness” eseguita dall’artista e compositore Ragnar Kjartansson. L’eco languidamente si insinua nella nostra testa e ancora prima che ce ne accorgiamo siamo già nell’alveolo, vittime dell’incantesimo.
Nella sala adiacente, quattro maestose opere di Marc Quinn compongono una vera e propria scenografia. Come spesso accade per le sculture di Marc Quinn, anche “Kiss” (2001) è una fiaba moderna per cuori impavidi. Collocata al centro della scena, la scultura rappresenta la cristallizzazione di un bacio tra due giovani anomali, imperfetti, tragici sì ma non meno vivi e devoti a sé stessi. Paradossali, perché bellissimi nella loro sgradevolezza, assoluti nel loro essere limitati, e resi eterni da una scenografia teatrale che ne esalta l’effetto disturbante al punto di annullarlo nella più intima e profonda commozione.

Si passa in fretta dal palcoscenico al set cinematografico con il sodalizio tra l’artista Nathalie Djuberg e il musicista Hans Berg: il loro “The Clearing” è una installazione composta da due pedane su cui ruotano composizioni floreali inquietanti e dai colori innaturali, contemporaneamente due video-animazioni sui toni a metà tra Tim Burton e i Fratelli Grimm giocano a raccontare istinti e impulsi naturali riprovevoli ma insiti nella natura umana, come la gelosia, la vendetta, la sete di dominio, l’ossessione e sottomissione.

Nelle sale successive troviamo Francesco Vezzoli con “The eternal kiss” e Joana Vasconcelos con “Coração Vermelho #3”, l’enorme installazione a forma di cuore formato da posate e altri oggetti di riuso in plastica rossa e metallo che oscilla appeso al soffitto sulle note dolenti del fado di Amalia Rodriguez. E ancora Vanessa Beecroft con le fotografie di soggetti o coppie multirazziali che nonostante gli abiti sfarzosi e le pose solenni e statuarie, accolgono fra le braccia con grande tenerezza neonati di etnie differenti rispetto a quelle genitoriali, in nome dell’amore oltre ogni barriera culturale e sociale. Troviamo poi il video “Crystal Gaze” della videomaker Ursula Mayer e il video “Love” dell’australiana Tracey Moffatt. Altrove, i neon di Tracey Emin raccontano il trauma della gelosia e del tradimento (“Those who suffer LOVE”) a partire dalla sua esperienza autobiografica, con frasi apparentemente romantiche ma che ad un livello più profondo celano messaggi infelici e ben più ostili.
Le affascinanti sculture dell’artista olandese Mark Manders mostrano il volto impaurito di una donna intrappolata tra assi di legno (“Composition with dark vertical”) e il busto deturpato di una bambina incastrato in una sedia con un asse di legno che emerge al posto delle gambe (“Figure on chair”), soggetti-oggetti che quasi scompaiono entro un ambiente inanimato poiché privati della propria libertà. Le opere di Manders parlano della degenerazione dell’amore nella violenza causata dall’ossessione per il corpo femminile, però sempre con quel tocco poetico proprio di tutta la produzione di Manders.
L’ultimissima sezione è dedicata a Gilbert & George, agli acquerelli romantici di Francesco Clemente e alla serie “Love Forever” di Yayoi Kusama.
Eccentrici artisti di origine altoatesina, Gilbert Prousch e George Passmore, proseliti del grande potere comunicativo dell’arte (“Art for all”) intesa come strumento di studio ed esplorazione della natura umana e della realtà sociale e politica contemporanea, presentano qui alcune opere appartenenti alla serie “Union Jack” che celebra l’amore per la patria. Gli artisti ritraggono se stessi, nudi o vestiti, in improbabili pose o balletti al centro di composizioni kaleidoscopiche e autoreferenziali in cui la bandiera inglese è ripetuta allo sfinimento divenendo quasi un codice linguistico o una specie di “tic” grafico-visivo.

Dopo questa indigestione di ritocco fotografico, si retrocede all’eleganza leggera e bidimensionale del simbolo, del gesto, della linea. Il linguaggio grafico di Yayoi Kusama ci accompagna attraverso l’ultima sala, che presenta sei opera inedite in Italia appartenenti alla serie “Love Forever”: “Lips Floating in the Waves [TOWHC]” (2005), “Morning Waves [TEXHT]” (2005), “Woman’s After-Image [FAOWE]” (2005), “Arrival of Spring [QA.B.Z] ” (2005), “Women Waiting for Spring [TZW] ” (2005), “Signs of Spring [WQZY] ” (2007).
Non è un caso che sia proprio Yayoi Kusama a chiudere il percorso, l’artista paladina per eccellenza della lotta fra amore e dolore, fra sofferenza e felicità, fra trauma e sogno, fra il male e il bene. I volti che costellano “Love Forever” sono uno, nessuno e centomila, così come le sfumature emotive dell’amore. Ma dove nulla si crea, nulla si distrugge e tutto si trasforma, una cosa per Yayoi rimane costante da sempre, fin dai primi duri anni della sua infanzia: l’arte come via di salvezza, fonte dello yang assoluto.
Michela Bassanello

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