Un dialogo aperto in due tempi su formazione, arte, identità e libertà a partire dalla recente pubblicazione del saggio La sintassi della libertà del critico d’arte e curatore Pietro Gaglianò.
F- L’equilibrio tra partecipazione, condivisione e coinvolgimento da una parte e ordine, chiarezza e funzionalità dall’altra, spesso non è semplice da raggiungere. Capita talvolta di stravolgere involontariamente processi o progetti orizzontali a causa di una ingestibile confusione di voci che si sommano in un’isterica ricerca di attenzione. Il ruolo del moderatore, facilitatore (tutti termini che magari non mi convincono fino in fondo) di colui che comunque rende fluido e proficuo qualsiasi confronto risulta fondamentale, anche se questa figura, volente o nolente, incarna un potere che potrebbe manipolare in qualche modo le sorti del processo di confronto. Dovremmo ripartire dalla responsabilità del singolo nel contesto collettivo? La questione, forse oggi sarebbe quella di trovare una formula per riuscire a rendere responsabile un Paese, ad esempio, come l’Italia, nel quale persino l’intera classe dirigente sembra in balia del battibecco, del pressapochismo e di un bieco egoismo infantile.
P- Sulla partecipatività, sull’impegno sociale e sull’orizzontalità sbandierata in un paio di decenni di pratiche artistiche il tempo ha fatto un buon lavoro di filtro, anche grazie alle disamine critiche di studiose e studiosi le cui traduzioni in Italia arrivano gravemente tardive, se mai arrivano (e questo è tanto più grave quanto più scarsa è la confidenza nazionale con le lingue straniere). Oggi forse possiamo ricominciare a guardare alla comunità tenendo presente la sua pluralità, l’impossibilità di ridurla a un oggetto compatto e un po’ esotico con il quale interagire o da beneficare con azioni artistiche e curatoriali che pretendono di raccontarlo.
P- Più in generale a me sembra evidente come il punto sul quale lavorare sia quel cardine che lega l’arte all’economica di mercato, l’eco del capitalismo nei sistemi di produzione, diffusione e consumo dell’arte. Il tutto in uno scenario che vede l’arte ancora (e con le eccezioni del caso connesse alla spettacolarità) un ambito elitario, incapace di raggiungere l’interesse di fasce ampie di pubblico lasciando, così, questo spazio alla comunicazione di massa della tv o delle peggiori farneticazioni che impazzano sui social network. Nessuna sorpresa quindi che gli artisti, i critici, gli educatori e tutte le strutture che accolgono e producono le arti visive in Italia siano trascurate dall’attenzione di chi ci governa. Tu citi la responsabilità individuale, ma io penso che per coltivarla bisognerebbe prima di tutto stimolare la percezione della comunità, la consapevolezza che nessuno si salva da solo…

F- Si può parlare ancora di un immaginario italiano? E se sì, su cosa si basa, oggi? Quanto incide un certo tipo di istruzione e di coinvolgimento nei processi culturali nella costruzione di un immaginario in cui riconoscersi? L’istruzione e l’educazione nelle dinamiche proposte da Istituzioni scolastiche, universitarie e museali come potranno giocare un ruolo importante in questo processo? Soprattutto in vista di una ridefinizione necessaria di spazi fisici e ambiti trasversali dei saperi, in virtù del distanziamento sociale e di una mission da rivedere radicalmente.
P- Sì, un immaginario italiano esiste, e io penso che sia forte e riconoscibile. Bisogna riconoscerlo nella sua naturale ibridazione con tutti i patrimoni culturali con cui entra in contatto, con la dimensione digitale, con la sua spontanea vocazione all’appropriazione di immagini e narrazioni. E bisogna sostenerlo e argomentarlo ma anche difenderlo da due tendenze opposte: quella dell’attaccamento alla tradizione, che è il terreno di coltura per ogni mancanza di immaginazione, e dalla tensione a disincarnarsi da tutti quegli aspetti che invece lo nutrono e lo rendono straordinario.

Questo immaginario si basa su una cultura relazionale che è propria del vivere comune, fondata sua una percezione dello spazio pubblico e del patrimonio culturale capace di unificare gruppi sociali diversi, e si basa sulla capacità di tenere insieme il lessico del quotidiano con il senso del mistero. Questo non riguarda solo il passato, naturalmente, ma anche le migliori tra le produzioni culturali contemporanee. Certo, tutto questo avviene solo di rado grazie alle istituzioni, e sicuramente avviene nonostante le strutture educative (quelle private anche più malsane di quelle pubbliche nell’istruzione di stereotipi del giovane artista). Io ho fiducia nel fatto che il grande motore della condivisione della conoscenza, quel vivere in comune che rende le piazze davvero belle e la cultura davvero viva, possa continuare a essere l’arena di questa narrazione democratica e trasversale, dove il distanziamento fisico non diventi diffidenza relazionale.
Fabrizio Ajello
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Pietro Gaglianò (1975). Laureato in architettura, critico d’arte e curatore, approfondisce l’analisi sulla linea delle libertà individuali, delle estetiche del potere, della capacità eversiva del pensiero critico e del lavoro artistico. I suoi principali campi di indagine sono i sistemi teorici della performance art, in relazione alle estetiche dell’arte visiva e del teatro di ricerca; il contesto urbano, architettonico e sociale come scena delle esperienze artistiche contemporanee; i temi e i processi della pedagogia radicale e libertaria al quale è dedicato il volume “La sintassi della libertà. Arte, pedagogia, anarchia”, Gli Ori 2020.
In copertina: Thomas Hirschhorn, Gramsci Monument – 2013
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