La pornografia dei sentimenti pietistici: sembra che nei palinsesti nostrani non si sappia fare a meno della pubblica umiliazione come elemento cardine della sua drammaturgia. Catarsi o sadismo? Ricerca di audience o pseudo-umanizzazione del mezzo?
Da almeno 30 anni sui piccoli schermi italici il pianto, quello ingenuo, facile, pietistico, sofferente dell’uomo comune, viene estorto al disperato e sconosciuto di turno, più o meno con l’inganno, facendo leva sulla debolezza di un momento e su argomenti chiave che ne scatenino la vulnerabilità.
Il patetismo del racconto portato al suo eccesso, la pornografia dei sentimenti, lo sfruttamento della sofferenza all’apparenza sono quindi niente di nuovo sotto il sole delle tv generaliste o anche tematiche eppure sono un evergreen che con mutazioni genetiche di adattamento all’habitat in cui operano non si spegne mai e si nutre sempre di nuova linfa ed ovviamente di audience.
Senza andare necessariamente a ripescare l’ormai proverbiale TV del dolore degli esordi di un certo giornalismo d’inchiesta (dal celebre episodio di Alfredino, prima diretta sull’orrore di una lunga serie, ad un Santoro d’antan), si può guardare invece come ad una rustica versione beta del pianto commosso che “così famo picco” al Mengacci anni ’90 che in Scene da un matrimonio pungolava padri della sposa emotivamente fragili sottoponendoli alla fatidica domanda “Cosa prova il cuore di un papà?” davanti all’imminenza del matrimonio della figlia e quindi alla sua prossima uscita di casa, suscitando già allora inevitabili e patetici lacrimoni acchiappa ascolti che nulla però erano se paragonati ai fiumi di pianto del successivo Carramba che sorpresa, ancora di più votata ad un impari interscambio tra rilascio di ogni pudore a favore di telecamera per una soddisfazione emotiva offerta all’occhio voyeuristico dello spettatore.
Ma se i format passano e le tendenze pure, cosa rende intramontabili le lacrime in tv, sempre di più in grande spolvero ed ormai dilaganti in tutte le forme, dal talk più irregimentato al tg, nonostante poi la diversa consapevolezza dello spettatore che si approccia al mezzo con un bel po’ di disincanto in più?
La sopravvivenza di questo facile ed efficace artificio sta nella rivoluzione che questa tv ormai smaliziata, manipolata e manipolatrice ha saputo applicare al pianto facile, ovvero ad una inedita strumentalizzazione delle lacrime da parte del “piangente”, che non appare più subire, ma governare in modo scientifico la propria commozione per accaparrarsi benevolenza ed empatia. Piangono di commozione, nostalgia e di altri sentimenti nobili, gli attori, i virili, gli uomini che non devono chiedere mai, i presunti cinici, coloro che non ti aspetteresti, e tutti gli altri che con loro possono di ruolo essere ascritti alla macrocategoria dei così detti VIP. E piangono calde lacrime tra questi i politici, che in questo espediente antico come il mondo hanno ormai trovato la forma più nazional-popolare di propaganda e promozione del sé.
Oltre alle lacrime programmate in scaletta ancor di più l’auditel agogna quelle di presunto pianto naturale, quello che sorge più o meno spontaneo e non calcolato del quale non ci si vergogna più e che anzi si esibisce e si autorizza a mostrare pur consapevoli che verrà postato all’infinito, diventerà meme, sberleffo, motivo di discussione, di servizio a Studio Aperto, di articolino disimpegnato sulle edizione on-line dei principali quotidiani: sempre valido il detto “anche male, purché se ne parli”.
Piange quindi la dura Maionchi a “Masterchef ” e con lei, con tanto di pseudo mancamento, Maria Grazia Cucinotta davanti ad un piatto non riuscito. Piange Fedez milioni di lacrime liberatorie al termine di una candid camera giocatagli da Le Iene, piangono a fiumi gli pseudo famosi delle varie isole e case, che passano con disinvoltura da manuale dal pianto al rimpianto, dal piagnisteo nostalgico, a quello di rammarico, Bettarini docet.
Ma tra una Maria de Filippi, che sul pianto (che sia da tradimento, da commozione, da pentimento), ha basato il suo fenomenale cult C’è posta per te, tra una Sciarelli che si trincera dietro la funzione pubblica di Chi l’ha visto per poter sbattere in prima pagina ansie e pianti di apprensione, tra una Eleonora Daniele che nel suo Storie vere cavalca con furore il filone empatico del presentatore che piange con l’intervistato, oppure il cinismo imperturbabile del lacrimosissimo L’Intervista di Costanzo, spicca una vera e propria virtuosa del genere, che ha saputo declinare il pianto in una infinita varietà di trashissime sfumature, la regina del kleenex, Barbara D’Urso.
D’Urso presenta infatti un personale palinsesto all’interno di ogni sua Domenica Live e della sua propaggine naturale Pomeriggio Cinque fatto di un susseguirsi quasi liturgico di cliché, in cui il pianto riesce ad essere sempre e comunque centro nevralgico. Ci sono le lacrime di rabbia del freak alle prese con becero bullismo da bodyshaming che ha come bersaglio indiscusso il personaggio in più o meno grave sovrappeso; c’è il pianto disperato di chi è passato dalle stelle alle stalle (cavalli di battaglia le epopee discendenti prima della soubrette Isabella Biagini e poi dell’ex moglie del calciatore Totò Schillaci sfrattate e ormai indigenti); ci sono le lacrime dei figli rifiutati da padri illustri o con situazioni familiari disastrose con tutta la relativa compagnia di giro (Manuela Villa, Francesca De Andrè,la figlia ripudiata di Bobby Solo, etc etc…); ci sono le lacrime di gioia dei matrimoni, battesimi ed addirittura dei parti in rigorosa diretta.
Ma il climax, l’apoteosi naturale di questa esposizione studiata di coccodrilli si raggiunge quando D’Urso stessa si sottopone in prima persona (fintamente) inconsapevole al momento patetico, non più solo “partecipando” al dolore altrui, ma ponendosi al centro della commozione come unica e sola protagonista, come avvenuto in occasione del suo 60esimo compleanno celebrato mezzo tv nella più assoluta pompa magna. In un tripudio di riferimenti mesti ad un’infanzia da Libro Cuore e fallimenti amorosi, sapientemente alternati con momenti di classico romanticismo ed episodi da “core de mamma”, va in scena l’artificioso film della sua vita, con tanto di mini sala cinema a sua disposizione.
Si passa così dalla ricerca spasmodica di un’illusione empatica, al ribaltamento di ruolo in un autentico cortocircuito di protagonismo mascherato da volontà di inclusione dell’ordinario nello straordinario, di coinvolgimento del pubblico nel privato, come in una festa di compleanno tra amici. Mi casa es tu casa, mi pianto es tu pianto. Per la serie “anche i ricchi piangono”…mentre l’auditel ride.
Gabriella Cerbai
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