Mai uscì dalla bocca di Cristo una parola di disprezzo per la donna in quanto tale. Quando affermò che, nella perfezione del Regno di Dio, gli uomini non avranno sesso e saranno simili agli angeli, non solo equiparò indirettamente la donna all’uomo nella comune figliolanza di Dio, ma la liberò dalla maledizione di Eva che gravava su di lei.

A conferma di ciò, è interessante osservare che nell’episodio riguardante le tentazioni del diavolo subite da Gesù nel deserto (Matteo, 4, 1-11; Marco, 1, 13; Luca, 4, 1-13), l’Evangelista si limita a enumerare la gola (la pietra trasformata in pane) e il potere (la visione del mondo), ma non introduce alcun elemento di seduzione legato alla femminilità. La donna, quindi, non è più lo strumento materiale attraverso il quale si esercita la seduzione di Satana: la Vergine ha riscattato, per tutte, il peccato originale di Eva.
Pertanto, nei Vangeli, molteplici donne, se pur ritenute nella mentalità ebraica “malvagie”, poiché espressioni dell’impurità e del peccato, beneficiano della benevolenza e della misericordia di Cristo, che non ha mai temuto di entrare in contraddizione radicale con tutti gli enunciati dell’Antica Legge.
Alle peccatrici che incontra nel suo cammino Gesù, infatti, chiede sincero pentimento, ma non infierisce crudelmente su di esse, condannandole per i loro sbagli. Acquistano valore “rivoluzionario” soprattutto due particolari aneddoti: quello della peccatrice che si recò nella casa del fariseo Simone, non solo perdonata per i suoi peccati, ma anche elogiata per il suo amore (Luca 7, 36-50); e quello della Samaritana, portatrice di una triplice irregolarità, in quanto donna, straniera e dal vissuto personale non irreprensibile, trasformata in messaggera della nuova fede (Giovanni 4, 7-37).

L’unicità dell’esempio di Gesù nei riguardi delle donne si esprime anche nell’abbattimento di un altro pregiudizio che toccava profondamente la condizione femminile. E’ noto che la principale ragion d’essere di una donna in Israele era di dare figli all’uomo che la prendeva in moglie; pertanto la peggiore sciagura che potesse toccarle era la sterilità che, letta come una punizione di Dio, costituiva un valido motivo di ripudio, contemplato nella legislazione mosaica. All’interrogativo postogli sulla liceità di tale pratica di ricusazione, Gesù prese posizione attraverso un richiamo al piano creazionale di Dio, a cui Mosè aveva derogato “per la durezza dei vostri cuori”, arrivando ad una conclusione personale: “Chi ripudierà la propria moglie e ne sposerà un’altra, commette adulterio riguardo a lei” (Marco 10, 1-12; Matteo 5, 32; 19, 1-9; Luca 16, 18).
Queste parole sono anticipate nel Discorso della Montagna, quando si precisa la condotta da tenersi nel matrimonio alla luce dei primi due capitoli della Genesi, che vengono ripresi attraverso il filtro della nuova prospettiva evangelica.
Perfino nei suoi ultimi istanti di vita terrena, Gesù ha respinto le consuetudini ostili alla dignità femminile. Ai piedi della croce Egli si è rivolto alla Vergine Maria con tali parole: “Donna, ecco tuo figlio” e a Giovanni: “Ecco tua madre” (Giovanni 19, 25-27). Affidando sua madre a Giovanni, Gesù, capo della famiglia, ha infranto, ancora una volta, le prescrizioni della Legge che obbligavano i parenti maschi a prendere in casa o a provvedere ad una vedova senza figli. I legami familiari erano fondamentali nella società ebraica deltempo, invece Gesù, in tutta la sua vita, ha attuato un’opera di relativizzazione dei vincoli parentali e matrimoniali: nel momento del dolore estremo Egli, infatti, ha consegnato sua madre alle cure di Giovanni perché ha avvertito l’ingiustizia e la gravosità di una legge che riduceva le donne a meri oggetti da spostare nelle case, senza tener conto della sensibilità e dell’affinità psicologica.

Oltre ai Vangeli, nel Nuovo Testamento troviamo un notevole spaccato della storia del cristianesimo sia negli Atti degli Apostoli che nell’Epistolario. Proprio in quest’ultimo si vedono affiorare i segni di una annosa polemica che vede confrontarsi, da una parte, la libertà delle donne e, dall’altra, la necessità di ordine all’interno della Chiesa.
Paolo, come tutti gli autori neotestamentari, parlava dell’uomo adoperando due termini, aner, nel senso di uomo distinto dalla donna, e ànthropos, nel senso generico di appartenente alla razza umana. La donna, invece, era chiamata semplicemente gynè, nel senso soprattutto di sposa e moglie.
Quest’ultima, nelle assemblee, doveva avere il capo coperto, in quanto non poteva liberarsi dalla potestà del marito che era “il suo capo”, come Cristo lo era dell’uomo (1 Corinzi 11, 3; Efesini 5, 21-24). Questa disposizione non era ritenuta appartenente alla schiera dei precetti umani, ma rispondente all’ordine creativo: “L’uomo non deve coprire la testa perché è l’immagine (eikôn) e la gloria (dóxa) di Dio, mentre la donna è la gloria dell’uomo. Infatti l’uomo non ebbe origine dalla donna, ma la donna dall’uomo, né fu creato l’uomo per la donna, bensì la donna per l’uomo” (1 Corinzi 11, 8-9).
Tale pensiero è servito a giustificare la segregazione femminile: infatti, concependo la donna come corpo dell’uomo e l’uomo come testa di questo corpo, Paolo ha sacralizzato una concezione antifemminista, la cui origine è, invece, unicamente culturale.
Le medesime convinzioni portarono l’autore della Lettera a Timoteo a ricordare ed inculcare la piena sottomissione della donna all’uomo, secondo la concezione corrente nel mondo ebraico. Infatti in essa leggiamo: “Non concedo a nessuna donna di insegnare, né di dettare legge all’uomo, […] Perché prima è stato creato Adamo e poi Eva; e non fu Adamo ad essere ingannato, ma fu la donna che ingannata, si rese colpevole di trasgressione. Essa potrà esser salvata partorendo figli, a condizione di perseverare nella fede, nella carità e nella santificazione, con modestia” (1Timoteo 2, 11-15).
E’ un testo molto pesante, che manifesta tutto il timore di una presenza femminile attiva e determinante nella Chiesa.
Paolo opponeva alla figura di Eva, sedotta e seduttrice, quella della madre che si salva attraverso la generazione dei figli, in quanto la maternità, pur non essendo una scelta obbligata per giungere alla salvezza, era ritenuta la vocazione propria del sesso femminile. Tuttavia l’Apostolo, distinguendo i tre ruoli femminili di vergine, sposa e vedova, assegnava alla verginità la palma di uno stato superiore di perfezione e abnegazione.
Solo una verginità consacrata poteva, infatti, rappresentare un ideale di perfezione angelica e allo stesso tempo costituire un modo per affrancare la donna dall’autorità maschile. Occorre, tuttavia, osservare che la piena realizzazione della donna è, in questo modo, concepita solo nella rinuncia alla propria specificità e all’unico ruolo riconosciutole dalla società.
D’altronde, anche l’ambiente circostante, durante primi secoli della cristianità, non era certo favorevole alle donne: se l’ebraismo sottraeva loro voce, perché il ricordo della profezia femminile si era perso nei meandri della memoria, nel mondo romano il modello di Tacita Muta serviva ad arginare totalmente una donna che potesse diventare “scomoda” esprimendo la propria visione del mondo e criticando l’operato dei maschi.
Nonostante ciò, Paolo fu capace di correggere se stesso e la mentalità dei suoi contemporanei affermando che: “l’uomo non può fare senza la donna, né la donna senza l’uomo, nel Signore. Poiché come la donna fu tratta dall’uomo, così l’uomo nasce dalla donna e tutto viene da Dio” (1 Corinzi 11, 11-12). Infatti l’Apostolo escludeva ogni possibile tentativo di abuso egoistico da parte dell’uomo, la cui egemonia era finalizzata alla “salvezza” della compagna.
La soggezione della donna era, pertanto, il retaggio della primordiale maledizione: con la rimozione dell’onta del peccato sarebbe stata rimossa anche la condizione di asservimento. Man mano che l’umanità avesse proceduto sul cammino della nuova vita in Cristo, anche la donna avrebbe riconquistato la posizione, sua di diritto, di parità con il compagno.
L’antropologia paolina si fondava sulla portata rivoluzionaria dall’evento cristologico che ha stravolto la gerarchia dei valori e i codici di comportamento e di relazione vigenti all’interno della comunità umana. Di ciò tali parole della Lettera ai Galati sono espressione emblematica: “Tutti infatti siete figli di Dio in Gesù Cristo mediante la fede; infatti, quanti siete stati battezzati in Cristo, vi siete rivestiti di Cristo. Non esiste più Giudeo né Greco, non esiste né schiavo né libero, non esiste uomo o donna: tutti voi siete una sola persona in Cristo Gesù” (Galati 3,28).

La femminilità, dal momento che rappresentava simbolicamente la situazione dell’umanità davanti a Cristo, aveva per Paolo due valenze possibili: quella negativa, rappresentata dalla Prostituta dell’Apocalisse, che seduce i re, s’inebria del sangue dei santi e fa guerra contro l’Agnello; oppure quella positiva, rappresentata dalla Chiesa, sposa di Cristo.
Può stupire, negli scritti di Paolo, l’incontro-scontro fra una tendenza “progressiva” e una “reazionaria”. Questa contraddizione si può spiegare pensando che l’Apostolo si riferisca, a seconda dei casi, alla donna come essere umano di genere femminile oppure alla donna sessualmente neutra in Cristo. Il superamento delle disparità tradizionali fra uomo e donna veniva ricondotto a Dio e, perciò, aveva valore esclusivamente di principio, non comportando, pertanto, conseguenze pratiche di portata rivoluzionaria nel contesto sociale.
Emma Fenu
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