Come si può raccontare la forza intima e divoratrice di un’artista attraverso le parole? È questa l’indagine che vorrei intraprendere in questo secondo appuntamento, scrivendo di un’icona indiscussa del surrealismo al femminile. Ma non per rendere omaggio alla femmina come animale provocatorio, bensì per riuscire a dare voce all’esplicita richiesta di ascolto – gridata – dell’artista puro. Ti ho ascoltata, cara Meret, e ti ho amata.
Incontrare Meret Oppenheim (1913 – 1985) non è stata una cosa semplice. La forza e la potenza di questo incontro lo ha trasformato in quanto di più vicino al Nirvana esista. Sarebbe meraviglioso se scrivessi di un incontro in carne e ossa: un Cafè di Lugano, fine anni ’50. Quando Meret era un cavallo selvaggio dell’arte surrealista. Avevo solo 3 anni quando è scomparsa e ce ne ho messi quasi 25, poi, per capirne la profondità senza scadere in facili pregiudizi post femministi da collegiale.
Quindi l’incontro di cui scrivo è meramente spirituale. Ho visitato la mostra di Lugano al MASI, a cura di Guido Comis, terminata il 28 maggio scorso. Un vero e proprio omaggio al sublime, oserei dire. Perché parlarne a mostra finita?
Perché è necessaria una riflessione alla fine di ogni esposizione, questa come regola generale della vita per chi opera nell’arte. È necessario tenere in vita parallelismi sempre fervidi tra quanto visto e quanto ancora da vedere.
Ed eccomi: Meret e me. Io e Meret. La mia personalissima visita, ha gravitato per 4 ore intorno a questo binomio incontrastato. Ho fatto evaporare completamente il mio stato d’animo e fuso in me il bronzo della Signora del Surrealismo. Sono stata trasportata in un mondo immaginifico fatto anche delle mie visioni, quelle più remote e insabbiate dall’ego e dalla consapevolezza. Eppure lei parla a tutti. Non solo a me in quel museo che tanto le assomiglia. Atroce e tenero.
Tedesca e svizzera nel sangue, parigina e sovversiva nell’animo, Oppenheim rappresenta l’icona del surrealismo finalmente offerto dal punto di vista femminile. E la trasgressione di una giovane Meret, in preda al demonio dell’arte, si avverte dalle primissime opere che la consacrano all’ingresso ufficiale nel gruppo dei surrealisti nel 1933.
Colazione in pelliccia (1936, una tazza di porcellana rivestita del vello di una gazzella cinese) è un’opera che parla di feticismo femminile con la potenza primigenia che si avverte nello sguardo della giovane Meret, che posa nuda e senza inibizioni sin da giovanissima. Una nudità pura e mai volgare che tuttavia mostra la forza propulsiva che le donne dovevano nascondere e frustrare.
Prima opera di un’artista donna ad entrare nella collezione del neonato museo americano. Non viene, però, più concessa in prestito dal MoMA perché troppo fragile. Ossimoro: fu la prima forte arma di quella mano di femmina che scagliava, con ironia e garbo, sassate di maestria ai contemporanei. Un altro esemplare di quel continuo mordente tra organico e inorganico è Scoiattolo (1969), un boccale di birra con una coda di roditore al posto del manico: altra ironia ma pur sempre viscerale.
Meret, lo sguardo fisso in camera e la naturalezza mascolina prepotente. Inesauribile anche in età avanzata: alcuni dei suoi video la mostrano, caparbia, i capelli rigorosamente corti e un atteggiamento di una superbia amorevole e spassionata.
Che amore a prima vista sarebbe stato per me. Un amore fatto di stima incontrollata, di una donna affascinata dalla fascinazione di un’altra donna ma anche dal suo potere comunicativo che ha smania di irrompere con un’attenzione fanciullesca, delicata ma greve nella sua sincerità.
Non per niente Man Ray e Max Ernst riuscirono ad amarla con un sentimento totalizzante e travolgente.
Con Oppenheim, la donna si denuda, si concede sempre, anche quando indossa una maschera. È nuda anche quando si libera della propria pelle pur tenendosi anelli e orecchini come nell’emblematica Radiografia del cranio di M.O.(1964). O quando si libera della propria carne, come nel Banchetto di primavera (Le festin): un’opulenta colazione imbandita sopra il corpo di una giovane donna per il piacere di pochi invitati. Spinge così ogni plausibile traguardo d’ambiguità oltre i limiti dei pregiudizi e delle facili etichette: si offre all’osservatore tanto quanto al desiderio.
Anticipazione di Body art a parte, Oppenheim non faceva arte con lo scopo di essere precorritrice di una corrente. Faceva arte come fare all’amore. Con il solo scopo di poter estrinsecare la passione che la dominava.
Rituali pittorici, i suoi, che illustrano sogni e incubi, con un tocco di realismo e spesso l’amabile perversione del colore che subentra e irrompe. Il tratto è deciso e ingenuo allo stesso tempo ma se ne sente quasi l’odore selvaggio, con l’attento ascolto. Si parla di boschi fatati e sottoboschi della psiche e le sue fate sono chimere vicine a ogni individuo eppure demoni sconosciuti.
La comicità temperata e usata come arma per nascondere la dolcezza di fondo, fanno della Oppenheim un’indulgente serva dell’ironia più viva e intensa. La sua curiosità spesso si rivolge a quanto di più ripugnate esista ma la sua tenerezza riesce a purificare ogni rappresentazione, innalzandola ad un livello migliore. E’ dell’animo che Meret parla in modo così inconsueto ma naturale.
Che sia arrivata proprio ora con un messaggio preciso eppure ghermito e celato, dal di dentro, dal mio spirito? Che questo incontro eterico fosse capitato perché la mia indagine si risvegliasse dall’arte per l’arte?
Ecco, l’arte di Meret Oppenheim è questa maestria di dare alla realtà un peso nuovo e inatteso usando ironia e gioco come complementi inesauribili: una visione in contrasto con l’abitudine.
L’oggetto è trasformato e il suo uso mutato, diventando quasi animalesco e suscitando sempre dubbio e sorpresa. Con estrema sintesi e incisività riusciva a raccontare la fantasia: altro ossimoro perverso.
Le illustrazioni di favole per bambini fatte dalla nonna materna e l’introduzione alla psicanalisi di Carl Gustav Jung grazie al padre medico, lasciarono segni indelebili.
E molte sono le opere in cui lo spirito selvatico di Oppenheim si distingue: l’opera in cera L’orecchio di Giacometti con fiori al posto di elice e antelice; una foto di Man Ray che ritrae Oppenheim nei panni di un uomo che legge il giornale, omaggiando le foto di Marcel Duchamp, nelle vesti femminili di Rrose Sélavy – i tre esplorarono ampiamente i territori della sessualità ibrida e dell’androginia psichica (di cui parla Jung) . E ancora le splendide fotografie della serie Erotique Voilée (Man Ray, 1933), in cui la giovane e disinibita musa dei surrealisti posa nuda, imbrattata d’inchiostro, accanto a un torchio, con un’ambigua distribuzione delle parti maschili e femminili.
E poi le sculture visionarie e i dipinti che narrano storie di animali e uomini in continuo scambio sensoriale, in una vicinanza psichedelica e vivace.
Come si può riuscire a omaggiare tale forza con la sola parola? Come si può non ringraziare tale lascito fecondo?
Cara Meret, io ti ringrazio.
In un elogio del poeta André Pieyre de Mandirgues rivolto all’artista, è scritto:
« Per Meret Oppenheim l’arte è inseparabile dalla vita di tutti i giorni ed entrambe sono caratterizzate dal contrasto fra il faceto e il serio intesi nel loro senso più estremo, da uno stupefacente miscuglio di dolcezza e di durezza sentite, con la stessa intensità… Meret nutre per la natura un interesse appassionato, ma è importante sottolineare che la sua tenerezza e la sua curiosità si rivolgono di preferenza a ciò che vi è più di inquietante e di ripugnante (per gli uomini comuni). Lontana da un cieco realismo a metà strada fra l’astrazione e la figurazione poetica. Meret ci fa intravedere i rapporti molto antichi che intercorrono fra le forme del mondo esterno e i movimenti di ciò che s’è convenuto chiamare l’anima umana. L’humour sottolinea in questo caso la profondità della visione». |
Daniela Ficetola
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