Iniziare questa rubrica con Vasco Bendini è come aprire il concerto del Notturno di Chopin con il più greve dei membranofoni. È esplosione d’impeto in una sommessa e dolce varietà di cose da raccontare. Ma non potevo che rendere omaggio al Maestro che per primo mi ha fatto intravedere la strada futura e che ha saputo cogliere un aspetto fondamentale da considerare nell’arte: il colore, la poesia. “Il Fiore”, quadro che Vasco ha regalato alla compagna Marcella, mi osserva e mi parla, ogni giorno. Non solo di quell’amore potente, onnipresente: parla di struggimento e di passione, di questo legame inafferrabile creato dall’arte stessa.
Questi i fatti. Impossibile non smarrirsi. In questi frangenti nascono i miei neri: canti della notte, matrice di speranza. E sorgono i miei bianchi, naturali immagini di attesa.
Così termina l’autobiografia di Vasco Bendini (1922 – 2015), assoluto protagonista dell’Informale in Italia nel Secondo Dopoguerra. Bendini concentra la sua riflessione sulla materia e sulle sue possibilità espressive, con lavori che risentono dell’influenza di Jean Fautrier. Un poeta supremo dell’informale, che ha saputo usare colore e calore per raccontare il suo contesto, dando voce quindi a quel contenuto in cui si è trovato a vivere.
Ho incontrato Bendini all’Università, grazie ad un percorso di approfondimento. Fu un incontro virtuale perché mi limitai ad amare la sua poetica attraverso mostre e cataloghi e grazie alle parole di Marcella, sua compagna di vita. Ho aspettato anni prima di dichiararmi e l’ho fatto solo durante l’edizione 2017 di ArteFiera, quando ho potuto aggiungere alla mia collezione personale “Il Fiore”, opera di sublime poesia dedicata appunto all’amore tra Vasco e Marcella. È con quella dolcezza, profonda e mai concessa, che ho analizzato la sua opera nella totalità, mai considerando le diverse epoche storiche e i diversi accadimenti della vita dell’autore. Perché è con amore e dedizione che anche chi osserva può cogliere la voce dell’autore.
Il percorso di Bendini si basa fondamentalmente sul racconto del sé autoriale in relazione al contesto storico e ai passaggi storici vissuti. Il tracciato che ne deriva è una miscellanea evocativa di materia, colore e forme che questo assume, toccato dall’artista.
Alcuni eventi più di altri hanno sollecitato le corde del suo animo e lui ne ha raccontato frustrazioni e accadimenti. È del ’66 l’opera “Due minuti” ispirata alla frenetica attesa del lancio della bomba H, annunciata per tutto il periodo della guerra fredda; sui giornali si leggeva che sarebbero stati sufficienti dieci minuti di attesa e i tempi per la distruzione dell’umanità si ridussero a quei minuti.
Dall’esordio Bendini affronta la sua poetica con meticolosa lucidità e analisi, quasi fosse quella di un alchimista che indaga sui comportamenti plastici e fisici dell’oggetto e della materia nel suo insieme, nel suo contesto e contenitore. Ne risultano investigazioni quasi oniriche, visioni metafisiche, trasportate su tele o tavole. Visioni mistiche in cui spinte affettive e realtà fisiche si scontrano per interrogarsi e dare vita ad un assoluto che diventa luogo reale e concreto dell’immaginifico. Con Bendini la materia viene ricondotta alla realtà attraverso salti temporali e spaziali inimmaginati. E per questo di un’incisività poderosa.
È proprio nel periodo più concettuale dell’arte contemporanea che Bendini affronta la sua lotta personale, pur manifestando con disinvoltura la sua nuova dimensione rispetto all’esordio new-dada o alle montanti esperienze poveriste. Mantiene sempre le inclinazioni di campo, le tecniche usate come utili manifestazioni di eguale valore della sua poetica, difficilmente inclinandosi alle contingenti correnti in fermento. Fu questa la caratteristica che amai e che amo ancora oggi ripercorrendo la sua vita artistica. Questa libertà leggera di esprimere il fluire del tempo, senza rispettarne le mode e le correnti è un modus operandi forse proprio ad ogni artista ma così lontano dall’attualità; un modo che spesso trafigge per profondità e purezza, rispecchiando appunto una certa “morale dell’arte” che oggi difficilmente si incontra.
Nel momento in cui Bendini avverte il limite del possibile pittorico – avvalorato dal disagio disciplinare in un contesto artistico in cui si prediligevano le proclamazioni d’appartenenza e in cui la lotta tra accademie o retoriche stilistiche si sovrapponeva alla poetica – rimette in discussione la sua missione senza porvi alcun limite. Inizia così a esplorare senza confini fondando nel suo spirito un nuovo statuto pittorico.
Parla del quadro come di “spazio incontaminato, spazio altro, come unica e possibile difesa del sé”.
È in questo momento di stravolgimento che nascono opere in cui la materia trova uno sfogo, nei suoi esperimenti polimaterici, una sincronia concettuale di radicale novità. La materia diventa pastosa e vitale e incontra drammaticamente la luce. Nella sua forma primigenia, la materia si trasforma in portavoce e pulsazione di un sentire sinergico, di un tempo e di un luogo in cui l’autore ha captato, ricevuto.
Eruzioni di colore divampano, l’oro rileva le linee più sinuose e contrasta spazi immensi in cui il gelo e la lontananza emotiva diventano visionarie impronte di colore. E grumi di colore e assenze funeree parlano della castità del gesto di Bendini e della sua apparente algidità che invece richiama alla purezza nel suo atto più estremo. La poesia più pura.
In questa indagine è possibile distillare l’artificiosità tecnica usata in nome di una più intima vocazione naturale e sublime della pratica pittorica. Riesce così a cogliere, divincolandosi da sterili incasellamenti artistici, la condizione più alta e metafisica del colore e della luce e ne trasmette i tratti insistendo, quasi disturbando la visione per sottolinearne la presenza. Lo fa per sconfiggere la cecità di taluni e purificarne così il percorso trasformando quell’emozione in un’esperienza arida e puramente mentale. Estremizza l’oro e il colore attraverso la loro totale purificazione, in un ossimoro che solo lui può permettersi nella drammaticità intellettuale degli anni ‘80. La scelta dell’oro, che diviene un motivo conduttore delle opere di questi anni, agisce in tal senso, a partire dalla nozione sua storicamente doppia, simbolica e materiale. Il segno materico si traccia e s’intesse, dirompe in un impulso naturalmente fisico utile a percepire le differenze tra far apparire e far essere, che si avviluppano in una erotica danza perenne.
Restano i sapori, i climi, le suggestioni del passato, fatti delle inquietudini della pittura degli anni Cinquanta come delle azioni dei Sessanta, come dei minuti disegni che da sempre costeggiano e nutrono la sua opera maggiore, nudi e paesaggi che rappresentano un po’ il segreto universale dell’artista. Il colore è nella luce, a volte abbattuto da evidenti pulsioni estreme di stanchezza, spesso iroso e vivo di forza primitiva e l’immagine si fa davvero paesaggio emotivo, figura, poi di nuovo colore lasciando all’occhio lo spazio utile per viaggiare in una sensualità femminea ora ombrosa ora accecante.
Affronta così il suo istinto pittorico, con una nitida e netta poesia che arriva dall’animo accorato che dal nero fa emergere l’immagine. Il nero, così, ricresce per stesure dense e forti, talora irritate e quasi grumose. È un nero sontuoso, quasi barocco, dal quale emerge un bianco fiero e candido: orgoglioso nelle varianti tonali che ne determinano la pienezza.
È con questo spirito, mite e forte allo stesso tempo, che ho scoperto il suo eterno gioco di colore. E non innamorarsi della soave intensità di quel tremore non sarebbe stato possibile, non sarebbe stato umano.
A Marcella.
Daniela Ficetola
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