Un’altra grande mostra per la stagione espositiva di Milano: l’Hangar Bicocca si illumina, fino al 14 Febbraio, con Hypothesis, personale di Philippe Parreno a cura di Andrea Lissoni.
Una luce al neon vibra mentre una stilografica scivola sulla carta tracciando la firma di Marilyn Monroe. Rapidamente l’inchiostro si unisce alla carta, e si legge già la parola successiva. La malinconia scivola nello stomaco insieme al freddo della navata dell’Hangar Bicocca, cattedrale elettrica per Philippe Parreno. Le 19 Marquees, tettoie dei teatri che l’artista ricostruisce dal 2006, unite a due pianoforti che suonano da soli, creano la Broadway da interni di Danny the street (2013), ipnotizzano con i loro giochi di rimandi, lampadine che rimbalzano di luce come palline su un campo da tennis. Passeggiando per questa strada luminosa si inseguono i suoni di pianoforti e autoradio nascoste, di colpo ci si gira per una nota dolce, per un’interferenza fastidiosamente rumorosa. Lo spazio è vivo. Costantemente la sua esistenza si ripete, una volta ogni ora e mezza tutto si annulla e ricomincia in un ciclo continuo di meraviglia.
È assolutamente obbligatorio tornare più volte, o rimanere per più di un giro su questa scintillante giostra. Bisogna farlo per non perdersi nel fascino di ogni singola opera, nella narratività dei sette video che scandiscono il tempo della mostra, proiettati su due schermi diversi per costringere il pubblico a inseguirne le immagini . Bisogna farlo perché l’opera nuova, il grande inedito, si nasconde tra le pieghe delle altre. Si trova nelle ombre del sole (Another day with another sun, 2014) di Liam Gillick, che scivolando dietro le Marquees ne denuda gli ingranaggi di plexiglas mescolandoli all’intramontabile meraviglia degli arcobaleni e si trova nelle note dei pianoforti, che da soli suonano per Marylin, mentre nel video del 2012 la voce automatizzata dell’attrice descrive la stanza dell’Astoria Hotel che l’ha vista morire. Si vede ancora quando la New York innevata del finale di Invisibleboy (2010-2015) lampeggia sullo schermo, mentre tutta la stanza lentamente si riaccende, e di nuovo si è vista all’inaugurazione, guardando il pubblico vero riflesso nella folla del video The crowd (2015), due strati di umanità che per un istante irripetibile hanno scrutato insieme il fascino del nulla.
E poi, pioggia. L’acqua cade in ogni video, sembra cadere dentro l’Hangar, continuamente, copiosa, violenta, una serie infinita di temporali improvvisi. Parreno ferma e studia la fascinazione profonda e terribile che proviamo quando, dentro casa, osserviamo un diluvio. Sentiamo il peso dell’incontrollabilità della natura, la sua violenza, la sua rumorosa vittoria su ogni nostra povera illusione di controllo. La sentiamo e rimaniamo incantati a fissarla, poco importa che sia quella palesemente finta di Marylin, quella di The boy from Mars (2003), satura nella sua ripresa in 33mm o quella graficamente perfetta di The Crowd. Sentiamo i nostri vestiti inumiditi da questa pioggia fatta solo di rumori e immagini, finché il cielo si apre di nuovo, le luci si accendono e il sole ricomincia a far girare le ombre sulla parete di fondo, grandi balene trasparenti che si inseguono e ci vengono addosso, sogghignando in faccia a qualunque pretesa di 3D.
Philippe Parreno ha creato un ecosistema automatizzato, ha fermato una frazione di tempo e ne ha riempito ogni attimo. Il risultato finale è un mondo autonomo, in cui ogni parte è fondamentale, anche se non tutte sono state create dalle stesse mani. L’artista algerino sembra sentirsi più a suo agio quando nella stanza ci sono anche i suoi colleghi, e così nasconde in mezzo alle sue, opere di altri, senza mai negarne la paternità, ma sempre rendendole ingranaggi del suo, più grande, disegno. Per questo Jasper Johns è l’introduzione alla sua personale: set elements for “Walkaround Time” (1968) è la scenografia per una performance di Merce Cunningham, legata a un tempo e a un luogo in cui altri artisti lavoravano prestandosi opere e condividendo palchi.
Una luce al neon vibra, imperfetto e bellissimo prodotto umano, elegante ricostruzione di un ritmo naturale in cui ogni cosa risponde all’altra. Dentro l’Hangar da un mese a questa parte viene voglia di viverci, rapiti da infiniti giorni che si inseguono, da racconti di bambini invisibili e attrici scomparse, intrappolati come mosche nella magia delle luci.
Elena D’Angelo
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