Alla Ribot Gallery di Milano, Kaye Donachie racconta una novella di Marguerite Duras con la mostra Behind her eyelids she sees something, visitabile fino al 21 novembre.

C’è una donna. La fronte alta, le labbra fermate un attimo prima di dischiudersi, le palpebre leggermente abbassate. Guarda qualcosa che sta sotto di lei, o forse evita lo sguardo di qualcuno. Il suo volto è fatto di pennellate dense, tirate sulle guance rotonde e leggermente rosate. È pallida contro lo sfondo vegetale, minuscola e intensa sulla grande parete bianca. Kaye Donachie l’ha raccontata con un titolo potente, To reveal yourself to others (rivelarti agli altri), che è anche un verso di Paul Eluard. È la poesia a suonare l’ultima nota del racconto di un’epoca, allestito alla Ribot Gallery per la mostra Behind her eyelids she sees something (dietro le sue palpebre vede qualcosa). La Donachie la nasconde negli sguardi di ognuna delle sue donne, la si vede riflessa nei loro occhi e descritta sui loro volti. Nessuna di loro è una donna in particolare, ma ognuna è tutte le donne del suo tempo.

L’artista ha iniziato questa serie di opere con la necessità di ricostruire visivamente l’atmosfera di una novella di Marguerite Duras, La malattia della morte. Donachie ha visto il testo e ne ha ricostruito lo sfondo, le comparse e le ambientazioni, senza ripetere la storia di quel racconto, ma scegliendo di mostrare le altre mille che si intravedono tra un riga e l’altra. L’ambientazione di questi volti allora, diventa una proiezione delle loro menti, evoca un pensiero che le assorbe, le risucchia in un sogno che al piano di sotto si fa blu di Prussia, in una spettacolare serie di cianotipie. Sono otto le tele su cui la Donachie ha lavorato con il sole e i sali di ferro, utilizzando un processo dal sapore alchemico inventato a metà del 1800, che porta con se la magia dell’inaspettato.

Le cianotipie hanno bisogno di essere esposte ai raggi ultravioletti, ma si può scegliere di sfruttare quelli dell’astro celeste se si accetta di giocare con il caso. La Donachie lo fa, cerca il sole nel giardino di casa sua, e ognuna delle piccole tele di cotone racconta un blu diverso, un giorno diverso, un tempo diverso. Si sogna nei piccoli rettangoli, dove mani incontrano mani, raccolgono, sfiorano tavolozze e piante, si fermano a guardare una luna elettrica.
Kaye Donachie non grida. Avrebbe potuto. Avrebbe potuto urlare ai passanti di entrare, lasciando quel blu accattivante al piano di sopra. Gli occhi delle sue donne catturano invece con un sussurro, chiamano a loro come le sirene, tendono subdole trappole con lo sguardo. Bisogna però saperle osservare, bisogna incontrarle e avere il coraggio di affrontarne le storie. Solo allora si può scendere di sotto, a raccogliere il premio dei loro freddi sogni di Prussia.
Elena D’Angelo


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