Interviste

Italia Reloaded, Italia Revolution | Intervista a Christian Caliandro

Storico dell’arte contemporanea e studioso di Cultural Studies, una “nuova” disciplina a cavallo tra cultura, antropologia, politica. Autore di “ITALIA RELOADED. RIPARTIRE CON LA CULTURA” e “ITALIA REVOLUTION. RINASCERE CON LA CULTURA”, Christian Caliandro (Mottola, 1979) si conferma uno tra i pensatori più lucidi della nostra generazione.

A cura di Serena Vanzaghi

Giuseppe Stampone, Casa Particular, 2015
Giuseppe Stampone, Casa Particular, 2015

A mio parere, i tuoi libri dovrebbero essere inseriti in tutti i programmi di studi sulla Contemporaneità per la lucidità con cui trattano certi passaggi cruciali degli ultimi 40 anni in Italia, al posto (o a integrazione) di tanti altri manuali che raccontano storie di nomi, opere, date e fatti, ma che non corrispondono alla nostra reale Storia, quella del nostro Tempo, perché non ne vengono svelati i nessi. Anche tu sei un docente, e un po’ provocatoriamente ti chiedo: perché è così difficile in certi ambienti accademici entrare nel vivo della “questione contemporanea”?

Innanzitutto ti ringrazio molto per le tue belle parole. È vero, è difficile, in particolare nel nostro Paese, per una ragione semplice e al tempo stesso complessa. Osservare, analizzare e interpretare il passato recente vuol dire indagare l’origine di ciò che siamo oggi, del nostro presente: e dal momento che l’intera storia d’Italia negli ultimi decenni può essere letta anche come una “stratificazione di rimozioni”, diventa molto più comodo affidarsi a versioni consolatorie, in grado di confermare costantemente ciò che pensiamo di sapere a proposito della nostra vita collettiva. È come se fossimo intrappolati all’interno di narrazioni che ci sono state consegnate, ma che non ci appartengono: versioni che conosciamo bene come finzionali e soprattutto atrocemente semplificanti, ma che non sappiamo ancora esattamente come disinnescare. Versioni imposte da generazioni precedenti, e presentate come le uniche esistenti, le uniche valide per interpretare il passato e soprattutto il presente (perché autocelebrative, autoassolutorie). Nessuna immaginazione narrativa dell’Italia è possibile all’interno di questa cornice: i racconti sono già tutti pronti, confezionati, ready-made. Quando l’unica versione della storia è quella elaborata da coloro che l’hanno fatta e vissuta, questo rappresenta un problema che influenza direttamente e profondamente le dimensioni della politica, dell’economia e – naturalmente – della cultura.

C. Caliandro, copertina Italia Revolution

 

In ITALIA REVOLUTION analizzi come nell’Italia degli Anni Settanta non sia mai maturata “dal basso” una vera e compiuta sottocultura, in controtendenza rispetto ad altri Paesi europei come la Gran Bretagna che hanno visto fiorire tantissime espressioni di ribellione e protesta, dal campo musicale a quello artistico e politico (come il PUNK, per esempio). Come questo ha penalizzato la generazione nata e cresciuta negli Anni Ottanta e Novanta?

Più che di penalizzazione, ricondurrei le nostre “sottoculture mancate” ancora una volta a quelle narrazioni interdette di cui parlavamo prima. Altrove – nel mondo anglosassone, per esempio – le sottoculture hanno concretizzato la ribellione culturale che è alla base di ogni forma di innovazione culturale, dunque sociale ed economica, efficace e duratura: le sottoculture hanno progettato e costruito modelli di vita radicalmente alternativa, che poi mutando ed evolvendosi sono entrati a far parte attiva dei processi di costruzione identitaria. Questo da noi non è avvenuto, o è avvenuto in misura residuale; se ci pensiamo, le uniche sottoculture italiane nate all’inizio degli anni Ottanta sono di natura per così dire paradossale, perché sono state calate dall’alto (le tv private, per esempio), seguendo il percorso inverso rispetto a quello naturale, in base al quale una generazione e una comunità creativa costruiscono da sé le proprie forme artistiche. Questo meccanismo si è inserito in un processo storico più ampio (il cosiddetto “riflusso”) che non si limita agli anni Ottanta ma si estende per tutto il trentennio che si è appena concluso. Alcuni scrittori – scrittori di narrativa, non sociologi né storici: e anche questo è un indizio significativo – hanno analizzato questi aspetti: tra di essi, in particolare, Alessandro Bertante in Contro il ’68 (2007) e nel recentissimo romanzo autobiografico Gli ultimi ragazzi del secolo.

christian caliandro
Christian Caliandro

Definisci le trasmissioni delle TV private degli Anni Ottanta (su tutti, il celeberrimo Drive In) come una versione extended dell’Italia felliniana post guerra, con l’aggiunta di quell’ “aura glamour e fracassona-cafonal degli 80s italioti”. Queste manifestazioni sono così radicate nell’immaginario del “Trash all’italiana” che mi chiedo se mai potremo farne a meno (anche oggi vediamo esempi più o meno rivisitati, ma chiaramente ispirati a quelle atmosfere). Nonostante siano triti e ritriti, sono finiti per essere parte della nostra stessa cultura, in fondo…

Sì, sono parte della nostra cultura in modi anche più profondi di quanto ci faccia normalmente piacere pensare. Il grande equivoco riguardo agli anni Ottanta italiani è proprio che essi siano stati superficiali, glamour, luccicanti come il loro aspetto, quando invece sono stati almeno altrettanto pesanti e lividi degli anni Settanta, nonostante il loro aspetto. D’altra parte, questo immaginario culturale estremamente resistente e condiviso è il sintomo, la spia di qualcosa: della dissociazione da se stessa che l’Italia ha progressivamente vissuto proprio a partire dalla fine degli anni Settanta, una dissociazione che si è manifestata sul terreno della politica, della società, dell’economia e della cultura intesa sia come produzione che come fruizione. Proprio la cultura, che per il trentennio precedente, a partire dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, aveva contribuito potentemente a ricostruire l’identità collettiva di una nazione (attraverso le opere dei registi, degli artisti visivi, degli scrittori, dei designer, degli imprenditori e persino dei politici), da un certo punto in poi collabora invece attivamente allo sviluppo di questa forma piuttosto seria di schizofrenia. Un intero Paese si “trasferisce” da un’altra parte, in un’altra versione di sé: l’immaginario che tu citavi è la spia di questo percorso.

Drive in

Paragoni il sistema dell’arte italiana degli ultimi 20 anni a quello della politica del Belpaese: autoreferenziale, parassitario, anacronistico, dissociato dalla realtà esterna e lontano da un vero progresso critico ed evolutivo. Se entrambi sono troppo impegnati nel reiterare forme e modus operandi del passato, ignorando le trasformazioni in atto, a chi potrebbe essere consegnato in Italia lo scettro del cambiamento?

Io direi che faremmo meglio ad abbandonare l’idea che il cambiamento possa essere affidato a “qualcuno” che sia in grado di guidarci: abbiamo avuto ampie dimostrazioni delle conseguenze. Il cambiamento, quello reale e non presunto, è invece qualcosa che deve essere vissuto ed esperito in prima persona dagli individui, e poi dalle comunità; deve essere parte dei cervelli e dei modi di pensare, influenzando scelte, comportamenti, azioni; come diceva uno dei più grandi scrittori del nostro secondo Novecento (ovviamente incompreso e bistrattato), Luciano Bianciardi, “deve avvenire in interiore homine”. Al di fuori di questa visione, che implica il sacrificio e la responsabilità, oltre che una prospettiva non a breve termine, esiste solo il tentativo, assolutamente inutile oltre che insostenibile, di far sopravvivere il vecchio – tale e quale – all’interno del tempo nuovo.

Il tuo approccio di analisi parte da una comparazione tra ambiti che vede l’arte contemporanea non come mondo a parte, ma al centro di una rete di collegamenti con altre discipline e contingenze storico-politiche che ne permettono la reale comprensione. Quanto è importante al giorno d’oggi avere uno sguardo trasversale e non prettamente settoriale? Mi sembra che la tendenza sia quella di guardare sempre e solo al proprio orticello…

Onestamente, è l’unico modo che io conosca per indagare quello che definiamo come “presente”, o “contemporaneo”. È vero quello che tu dici, che la tendenza generale sia quella di rinchiudersi sempre più: ma non credo che questo approccio possa portare grandi vantaggi in termini di comprensione e di critica. Al massimo, può servire eventualmente a coltivare una micro-rendita. D’altra parte, non penso che sia mai esistita una vera storia dell’arte che prescinda da tutti gli altri aspetti della storia culturale – dal momento che uno dei suoi obiettivi è proprio quello di riaffermare il potenziale trasformativo dell’oggetto culturale; la sua capacità latente, oscura, allucinata di intervenire nel tessuto della realtà e delle relazioni umane, per illuminarli e mutarli dall’interno. Come scriveva Roberto Longhi nelle sue Proposte per una critica d’arte (1950): “L’opera d’arte è una liberazione, ma perché è una lacerazione di tessuti propri ed alieni. Strappandosi, non sale in cielo, resta nel mondo. Tutto perciò si può cercare in essa, purché sia l’opera ad avvertirci che bisogna ancora trovarlo, perché ancora qualcosa manca al suo pieno intendimento”. Questo “qualcosa” è l’immaginario. L’immaginario è il telaio, la struttura fondamentale in grado di sorreggere un sistema di valori radicalmente alternativo; di costruire i presupposti e le precondizioni per una transizione effettiva e sostenibile.

Gian Maria Tosatti, My dreams they'll never surrender, 2014, veduta dell'installazione
Gian Maria Tosatti, My dreams they’ll never surrender, 2014, veduta dell’installazione

A tuo parere, chi sono gli artisti contemporanei italiani che meglio hanno saputo o sanno interpretare il nostro Tempo?

Ho appena concluso all’interno della rubrica inpratica che curo su “Artribune” una serie di articoli monografici intitolata Critica come fraternità, che sotto questa definizione riunisce le opere e gli autori italiani delle ultime generazioni che stanno dando vita e corpo a presagi e annunci significativi di ciò che verrà. Si tratta di Gian Maria Tosatti, Marta Roberti, Giuseppe Stampone, Paola Angelini, Marco Strappato, Nero (Alessandro Neretti) e Alessandro Bulgini; a loro si aggiunge Cristiano De Gaetano, talentuoso artista tarantino scomparso purtroppo prematuramente all’età di 37 anni.

Memecult si occupa di sondare “immaginari condivisi”, quelli che hanno caratterizzato la nostra generazione e che hanno accompagnato il passaggio al nuovo millennio. Quale è stato l’immaginario, la situazione, la suggestione o la scoperta che più ha influenzato la tua formazione?

Tre scoperte principali, tutte avvenute durante la preadolescenza e l’adolescenza: la fantascienza degli anni Settanta e i film horror (che solo più tardi avrei riconosciuto come “politici”) di John Carpenter e George A. Romero; la letteratura beat, a partire da Sulla strada di Jack Kerouac; e poi il grunge non solo con i suoi gruppi e con i suoi album, ma con il suo portato culturale e creativo: un’idea viene sviluppata, portata alle sue estreme conseguenze, e il “virtuosismo” – lungi dall’essere una pratica decorativa – significa in definitiva saper scavare nel rumore, tirarne fuori qualcosa di strutturato ed entusiasmante; sfondare l’oggetto di riflessione, esorbitare dai confini dati e stabiliti; significa non escludere alcun aspetto di ciò che abbiamo costantemente davanti – inclusi dunque il rumore di fondo, la sporcizia, il rimosso, il dolore, l’errore – senza però concentrarsi esclusivamente su questi elementi, sull’oscurità e sulla fonte del pessimismo. (Consiglio a tutti vivamente di riascoltare In Utero.)

 

About the author

Serena Vanzaghi

Serena nasce a Milano nel 1984. Dopo gli studi in storia dell'arte, frequenta un biennio specialistico incentrato sulla promozione e l'organizzazione per l'arte contemporanea. Dal 2011 si occupa di comunicazione e progettazione in ambito artistico e culturale.

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