Recuperare il Classicismo nel contemporaneo, attraverso i graffiti: abbiamo incontrato lo street artist varesino Andrea Ravo Mattoni durante la sua ultima impresa alle porte di Milano, dove ha appena concluso su muro La conversione di Maria Maddalena del Caravaggio, capolavoro del 1598. Ecco cosa ci ha raccontato di sé e della sua arte.
Intervista a cura di Eva Pugina
Perché il nome d’arte Ravo?
Il nome Ravo viene dai graffiti: ho iniziato a fare graffiti nel 1995 e deriva dalla marca delle macchine rotative che puliscono le strade.
Tu parli del tuo progetto di “recupero del Classicismo nel contemporaneo” attraverso la trasposizione di dipinti dei grandi maestri del passato. Hai scelto Caravaggio principalmente, perché?
Il progetto è un sogno nel cassetto che avevo da tanti anni. Fin dall’antichità, il maestro creava l’originale e gli allievi facevano le copie oppure pittori successivi creavano le copie dall’originale. La copia come tradizione è servita per la diffusione anche dell’immagine nella cultura dell’Europa. Io lo tramuto in una questione contemporanea, proponendola nella grande dimensione. Creo copie, le metto a disposizione della comunità.

Mur d’Oberkampf, Parigi.
Il progetto nasce da questa esigenza. Sono partito da Caravaggio perché è un artista legato al mio territorio, alla Lombardia. Da lì è scaturito tutto il discorso di legame con la zona in cui opero: in Spagna Velasquez, in Belgio Jan van Eyck e Rubens, in Francia Valentin de Boulogne, George De la Tour, Simon Vouet, Delacroix.
L’obiettivo del tuo lavoro è la divulgazione, portare sulla strada l’arte chiusa nei musei. E’ un progetto di arte sociale?
E’ un progetto di arte performativa e arte sociale, insieme: io metto a disposizione le mie capacità, come fossi un direttore d’orchestra. Un progetto di “ri-colturizzazione” a partire dalla base, dalla strada. La cultura, al giorno d’oggi, viene quasi denigrata e il mio intento è riportarla ad un effetto “wow”, di meraviglia, per cercare di far conoscere alle persone. La cultura per me è politica, se vogliamo. In realtà faccio politica in una maniera più raffinata e sottile, non cercando la polemica e lo scontro. Cerco di creare un ponte con le istituzione museali. Non cerco questo legame con una poetica aggressiva, bensì più delicata e con uno sguardo attento sul passato.

Ti definisci pittore. Qual’è la tua tecnica?
Lo spray. Utilizzo metodi classici per riportare le proporzioni, attraverso la squadrettatura. Analizzo i dipinti classici, attraverso lo studio del supporto tecnico: quale fondo ha usato l’artista, che tipi di colore ha utilizzato etc. Parto da questa indagine e da lì utilizzo gli spray cercando di imitare la pittura ad olio, anche con l’utilizzo della velatura. Le bombolette creano un effetto “morbido”. Mi definisco un pittore, ma non pennello, non tocco mai la superficie. Per questo motivo potrei essere definito un “aerosol-artist”.
Come nasce il tuo lavoro? Qual’è il tuo rapporto con la committenza, sia pubblica sia privata?
Il mio rapporto con la committenza è ottimo. Mi propongono muri da tutto il mondo. Parto dall’analisi del territorio e collaboro con storici dell’arte nella scelta del soggetto. E’ successo ad Olbia, in Sardegna, dove ho riprodotto Il ritrovamento della Vera Croce del Maestro di Ozieri. Normalmente indico tre proposte: non è il committente a scegliere, a meno che la proposta non sia già in linea con le mie scelte. E’ successo ad esempio per il Policlinico Gemelli di Roma. Il Vaticano mi ha chiesto Le sette opere della Misericordia di Caravaggio. La committenza è sia pubblica sia privata: multinazionali, comuni, ville private. In questo caso, a Settimo Milanese è il Comune che ha sovvenzionato l’opera, grazie al lavoro di giovani appassionati, riuniti nell’associazione Nuovi Colori, la cui finalità è quella di realizzare opere d’arte collettive che, attraverso un percorso partecipato, vadano a recuperare i muri degradati della città. Sono anche rappresentato da tre gallerie d’arte in Germania, in Svizzera e in Francia. Importante nel mio lavoro sono i disegni preparatori per i murales, come per esempio il disegno con la squadrettaura. Espongo questi disegni insieme alla fotografia del lavoro finito, che è effimero. Può durare dura 30, 40 anni o il muro può essere demolito. Ciò che rimane è la testimonianza di questi disegni, il prodotto che ho creato per studiare il muro.

Fai parte del movimento artistico Urban art, un movimento che nasce a Parigi e tra gli artisti da ricordare troviamo Daniel Buren o Christo. Quali tendenze dell’arte contemporanea di oggi reputi più vicini al tuo lavoro?
In America ricordiamo Haring e Basquiat, in Francia Blek le rat… Ma realmente nasce lì l’urbana art? La fontana di Trevi non è arte pubblica? O la statua di Canova a Brera, oppure il Sacro Monte di Varallo Sesia? Abbinata a alcune tendenze politiche e musicali, l’Urban art nasce in un determinato humus sociale differente dai graffiti a New York negli anni ’70. L’urban art vuole comunicare con tutti. Per il mio lavoro è importante che ci siano dei muri; i muri sono legati a delle costruzioni, che di base sono all’interno della polis o di piccoli borghi. La tendenza dell’arte contemporanea che è più vicina al mio lavoro è sicuramente tutta l’urban art, a livello di luoghi. All’interno dell’urban art ci sono dei micro mondi. Io faccio qualcosa di trasversale, porto avanti il discorso della “copia” e la reputo più contemporanea del contemporaneo.
Hai mai pensato di collaborare con altri artisti?
Sì, sto già collaborando con altri artisti: Ozmo ha iniziato prima di me. Ha iniziato a riproporre dei classici, inserendo delle simbologie. Lavoriamo insieme. Lo è anche MonkeyBird, il duo di Parigi, Fikos di Atene che si rifa alla pittura greco antica. Ci sono tanti che si rifanno al classicismo. Inconsapevolmente stiamo creando un gruppo nel 2019 (una sorta di manifesto postmoderno). Sto collaborando con Cyrille Gouyette, direttore del dipartimento Educazione e Formazione del Louvre, appassionato di street art, il quale sta scrivendo un libro sugli artisti che vanno in questa direzione. Sto collaborando con altri artisti e sto creando questa idea di gruppo. Il discorso dell’urban art è molto confuso. Vorrei far partecipare tutti quelli che attingono dall’arte classica, arte antica per creare arte pubblica.

Importante nell’urban art è il rapporto dialettico con il territorio, con la realtà urbana, quindi con la città. Il linguaggio non convenzionale degli artisti si inserisce in una comunicazione diretta tra l’artista e la città, tra la città e lo spettatore. Quanto è importante per te il territorio nella scelta del dipinto?
Totalmente. Ho dei confini e dei limiti perché lavoro sulla pittura europea partendo dal 1100 fino 1800, magari mi spingo fino al ‘700 ‘800 americano. Se dovessi andare in Australia o in Giappone porterei l’eccellenza della pittura italiana, come un ambasciatore. E’ fondamentale la scelta del territorio perché io, oltre a creare l’opera faccio didattica, registrando la performance. Sono lezioni per il ciclo elementari, medie, superiori. Gli studenti vengono sul campo. Mi interessa che i ragazzi vedano, mi ascoltino. Fare arte pubblica è anche una grande responsabilità, perché io, il territorio, lo vivo per una settimana. Se vivessi questo territorio arrivando e dipingendo senza comunicare con esso, quello che ho fatto in atelier non lo farei. Quello è il muro che guarda la persona che sta a vivere quel luogo tutti i giorni, e non la tela dell’artista, quel bambino che nasce l’anno dopo e si vede il muro. E’ una bella responsabilità. L’arte pubblica una volta aveva molta più sensibilità, oggi trovo che ci sia un po’ troppa libertà sotto questo aspetto e non è un bel passaporto. Certa Urban art è troppo decorativa, legata all’illustrazione.

Negli ultimi anni sta acquistando sempre più importanza la riqualificazione delle periferie e si cerca anche attraverso gli artisti di dare una seconda vita a luoghi degradati e apparentemente abbandonati. Il tuo lavoro rientra in questo tipo di progetti?
E’ un termine abusato. Per me si tratta sempre di correlazione con il territorio, cercare di aprire un dialogo. A me interessa lavorare nei centri: a Novara ho collaborato all’esterno delle pareti del Broletto del 1300 in centro storico e lì non parliamo di riqualificazione urbana? Non sono uno street artist politicizzato sotto quell’aspetto, come altri artisti che lo fanno solo in determinati luoghi. Non mi interessa, lo rispetto ma io ho un’altra poetica.

La tua ricerca artistica è in continuo movimento? Il tuo progetto di arte sociale, che possa avere uno scopo divulgativo e rendere l’arte accessibile a tutti può andare al di là dei murales?
(ride) Si, ho preso 27 aerei ultimamente. Il mio progetto va al di là dei murales, perché faccio didattica. Lavoro dando lezioni anche al di là dei murales: faccio didattica non solo sotto i miei muri ma vengo chiamato dalle scuole, quella è la mia opera d’arte: io registro tutto, fotografo e documento tutto.
Eva Pugina
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