“Caro diario, sono felice solo in mare, nel tragitto tra un’isola che ho appena lasciato e un’altra che devo ancora raggiungere“: lo diceva Nanni Moretti nel 1993 mentre, interpretando sé stesso, era intento a compiere un viaggio verso Alicudi (isole Eolie) nel film Caro Diario.
La fascinazione nei confronti di tutti quei luoghi di transizione, terre di passaggio, quelle zone denominate “nonluoghi” dall’antropologo francese Marc Augé, è una sensazione più che nota a chiunque abbia desiderato almeno una volta di sospendere la propria vita rifugiandosi in una terra franca. Augé descrive i “nonluoghi” come posti in cui “L’individuo […] perde tutte le sue caratteristiche e i ruoli personali” e in cui si assiste ad una vera e propria massificazione di ogni differenza culturale.
Stazioni, aeroporti, centri commerciali: certo, il trionfo dei “nonluoghi” è stato il reale protagonista dei processi di globalizzazione, ma la verità è che tutto ciò non ha fatto altro che adagiarsi, nel tempo, alla naturale inclinazione umana di essere attratti verso qualcosa che riesca ad interrompere l’estenuante flusso della vita, l’impeto di appannare per momenti brevi la propria individualità, di lasciarsi andare alla tentazione, seppur pericolosa, di abitare un dolce purgatorio. E quindi, in questi luoghi di transizione in cui il flusso vitale è in stand-by, tutto è perennemente frenetico ma assolutamente piatto; è proprio per questo che servirsi di una lente di ingrandimento per osservare territori tanto anomali è così interessante.
La selezione di film indipendenti americani scelta dalla piattaforma streaming Mubi propone un esperimento notevole di esplorazione del “nonluogo”: si tratta di “Down In Shadowland” (2014) del regista Tom DiCillo. Direttore della fotografia di Jim Jarmusch, DiCillo, ispirato da rilevanti personaggi del cinema indipendente come John Waters ed Eric Mitchell, diventa ben presto uno dei più noti esponenti del cinema indie a New York, città culla di quel modo di fare cinema “trasversale”, sin dai film di Andy Warhol.
“Si gira a Manhattan”, del 1995, è un perfetto ritratto della lavorazione (travagliata) di una pellicola indipendente, intriso di ironia e di spirito di denuncia verso gli ostacoli che ogni produzione “low-budget” è costretta ad affrontare. Si è parlato precedentemente del carattere antropologico che è facile rilevare in molti casi di opere indipendenti, anche tra quelle che non appartengono al genere documentario: “Down In Shadowland” è un caso estremamente peculiare, poiché in esso convergono più che un solo discorso su cui valga la pena soffermarsi.
Il film di Tom DiCillo sembra non essere altro che una discesa verso gli inferi della più che caotica New York City Subway, la metropolitana della “Grande Mela”, riconosciuta al mondo come una delle linee metro che più di altre è teatro di situazioni paradossali, personaggi eccentrici e incontri assurdi. Non si tratta solo della possibilità di riconoscere Keanu Reeves o Tom Hanks occupati a leggere il giornale mentre siedono nella stessa carrozza in cui si è saliti per raggiungere il proprio ufficio, ma di centinaia di altre possibili situazioni inverosimili che vengono spesso raccolte da pagine Facebook come “Subway Creatures” o conservate sotto hashtags come “#nycsubwaylife”.
Che voi apparteniate alla categoria dei personaggi eccentrici o che voi stiate semplicemente percorrendo una tratta in assoluta tranquillità, poco importa: nella metro di New York, tutti prima o poi hanno dovuto abituarsi al caos che la governa. Il regista, dunque, si arma della sua camera a mano e ci conduce in un viaggio fatto di momenti appartenenti alla sfera del quotidiano, eppure sorprendentemente intriganti. C’è da fare tuttavia una precisazione: i tentativi etnografici compiuti dal cinema antropologico conservano l’etica come irrevocabile costante. I soggetti filmati sanno sempre di essere filmati, non sono ammesse riprese nascoste, e chi è davanti l’obiettivo è sempre invitato a “mettere in scena sé stesso”, ovvero a fornire una rappresentazione della propria persona.
Lo sguardo di DiCillo, invece, appare in certi istanti più simile a quello di una videocamera di sorveglianza piuttosto che a quello di un antropologo. “Chi di loro si è accorto di essere stato ripreso?” ci si potrebbe chiedere per gran parte della durata del film, che, come un grande archivio di Street Photography, invita a riflettere su una questione di certo non semplice: cosa succede alla privacy quando si riprende uno sconosciuto?
In questo caso, la riflessione di Augé sul carattere “non identitario” dei “nonluoghi” e su una presunta scomparsa dell’individualità, è illuminante. L’argomento è profondamente spinoso perché terribilmente attuale; da un lato, l’inequivocabile verità: la nostra immagine non è più nostra, che si tratti di notizie quali i recenti sviluppi tecnologici del governo cinese, che grazie al riconoscimento facciale sarà in grado di confrontare le immagini riprese dalle telecamere di sicurezza con un database che possa riconoscere chi ha dei precedenti penali, o che si tratti della guerra al copyright su internet, persa in partenza per stessa natura del mezzo.
Tutti sanno perfettamente di essere ripresi quasi costantemente e tutti, consapevolmente, sanno di star contribuendo al gioco disseminando continuamente proprie foto sul web. Dall’altro lato, invece, la tendenza ad ignorare il valore dello spostamento, della traslazione di un’immagine in un determinato altro contesto. E’ il 2014, lo stesso anno in cui “Down In Shadowland” viene rilasciato: il controverso artista Richard Prince allestisce la sua mostra “New Portraits” alla galleria Gagosian di New York City. L’artista, la cui opera ha più volte affrontato i temi del ready-made fotografico e del copyright, realizza delle immense stampe raffiguranti screenshots di post di Instagram, perlopiù provenienti da profili di celebrità (ma non solo), e le spaccia per delle sue opere.
Una delle tante foto di forma quadrata che ci scorrono dinnanzi agli occhi in quantità infinite, ogni giorno, viene venduta da Prince per 90.000 dollari. La foto è pubblica, non ha proprietario, eppure acquista grande valora se ingrandita ed esposta come opera d’arte, e non c’è lamentela che tenga: non sono poche le celebrità ad infuriarsi con Prince rivendicando il proprio diritto d’immagine, dimenticandosi di come, sul web, qualsiasi diritto venga azzerato nel momento stesso della pubblicazione.
Così come avviene su Instagram, chiarissimo è il sito americano del MTA (Metropolitan Transportation Authority) su cui è possibile leggere che “La fotografia e le riprese video sono permesse in ogni struttura e in ogni mezzo di trasporto, ad eccezione di attrezzature ausiliari come luci, riflettori o treppiedi che non possono essere utilizzati”. Tutto ciò che è necessario, dunque, è munirsi di una videocamera non troppo ingombrante che permetta di effettuare delle buone riprese per far sì da poter catturare le immagini di chiunque decida di oltrepassare i cancelli delle stazioni delle metro statunitensi.
Elevare il quotidiano allo status di opera d’arte, la prerogativa al centro della pratica del ready-made, è solo una tra le tante riflessioni che si incrociano nella mente dello spettatore durante il film di DiCillo, osservatore costretto ad assistere anche a momenti, tra quelli di altro genere, decisamente noiosi, “atti di ordinaria amministrazione” come persone che leggono, conversazioni sul tempo e usuali incontri.
Le immagini del film, divise in sei sezioni denominate “Descend”, “The Outher Gate”, “Citizens”, “In The Belly Of The Beast”, “Speaking In Tongues” e “The Edge Of Innocence”, eppure, non solo sembrano caricare di rilevanza eventi che ci circondano ogni giorno senza catturare mai la nostra attenzione, ma paiono restituire ulteriore drammaticità persino ad una serie di avvenimenti, simboli o dettagli a cui siamo soliti dedicare l’attenzione per pochi secondi, prima di tornare completamente immersi in pensieri totalmente personali e rivolti agli impegni della giornata.
Così, lo sguardo di Tom DiCillo si ferma ad indugiare su volantini che ritraggono persone scomparse, perlopiù ragazzi di giovane età (come il piccolo Avonte Oquendo, a cui è dedicato il film), sui discorsi disperati dei senzatetto che implorano i passeggeri di ricevere un’offerta, su interi monologhi di denuncia al razzismo ancora totalmente preponderante in America, e ancora: la lente della macchina a mano insiste sulle immagini di violenza affisse sulle mura delle stazioni, sulle immagini promozionali e sanguinolente del nuovo video gioco “First-Person Shooter” di punta, alle immagini dell’ex Presidente Donald Trump che con la mano imita un colpo di pistola durante un comizio.
Immagini di sparatorie, notizie di attentati al telegiornale, tutto mescolato in modo randomico alla pop culture, ai concerti di Christina Aguilera e Michael Jackson, alle locandine dei film in palinsesto, agli ultimi omicidi risultato della follia americana per le armi: “the only thing that stops a bad guy with a gun, is a good guy with a gun” (“L’unica cosa che ferma un uomo cattivo con una pistola, è un brav’uomo con una pistola”) si sente dire ad un uomo intervistato da un’emittente televisiva su uno dei tanti schermi costantemente accesi per tenere impegnati i passeggeri durante l’attesa del loro treno.
Nelle stazioni e nei mezzi di trasporto, “nonluoghi” per eccellenza, simboli carichi di significato diventano quasi del tutto invisibili, ammassati ed amalgamati in un mondo sommerso in cui la vicinanza estrema delle mani di due sconosciuti che si sfiorano non serve ad altro che a sottolineare la paradossale, e impercorribile lontananza che li distanzia. La metropolitana di New York raccontata da Tom DiCillo somiglia ad uno spazio virtuale in cui ognuno è intento a navigare la propria porzione di internet, non curante degli altri, come se ognuno fosse completamente invisibile e protetto da pareti illusorie; un cyberspazio di utenti indifferenti la cui prima reazione nei confronti di una voce robotica che annuncia “irregolarità della linea a causa di una fatalità” è quella di sbuffare annoiati. Il regista, che ha raccolto immagini della metro newyorkese tra il 2009 al 2014, non dilata né accelera gli eventi che gli si mostrano dinnanzi agli occhi, riporta ugualmente la consuetudine e lo straordinario, ammesso che esista qualcosa che li renda ancora distinguibili.
La “terra delle ombre” di Tom DiCillo non si limita esclusivamente ad essere un magma incandescente di immagini, ma un caos di parole, rumori e suoni assordanti che cercano di prevalere l’uno sull’altro, in un’estenuante ricerca di un modo di essere notati; la splendida colonna sonora, al di fuori della diegesi, alterna brani di musica elettronica (Bonobo, Trentemøller) a gemme della musica ambient come “Lux 4” di Brian Eno e brani composti dallo stesso regista. Gli abitanti di New York City si muovono come personaggi svuotati dalla loro identità, mortalmente impermeabili ed insensibili a qualsiasi tipo di sensazione al di fuori della pallida accettazione della realtà circostante, ben lontana dall’essere perfetta: “Down In Shadowland” è un trattato sulla solitudine umana. Le parole profetiche “Il grande artista di domani sarà underground” pronunciate da Marcel Duchamp, non sono mai state così indicate.
Arianna Caserta
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