Cinema e Teatro

Indie d’America | “Buffalo Juggalos” di Scott Cummings

Diamo il benvenuto a una nuova rubrica di Memecult dedicata alla cinematografia indipendente: Indie d’America, a cura di Arianna Caserta, indaga alcuni dei film sperimentali presenti sulla piattaforma MUBI, passando in rassegna temi attuali affrontati attraverso uno sguardo filmico originale. Iniziamo con Buffalo Juggalos di Scott Cummings, del 2014.

Entità al confine tra realtà e allucinazione, personaggi in bilico tra ordinario e assurdo, uomini e donne con il viso dipinto di bianco che somigliano a mimi provenienti da un’altra dimensione: no, non sono immagini tratte dal magnifico finale di Blow-Up di Michelangelo Antonioni, questa volta non si tratta del frutto dell’immaginazione del protagonista ma della realtà, e la dimensione in questione è proprio la nostra, o meglio, quella di Buffalo (New York).

La piattaforma di streaming “Mubi”, la preferita dagli appassionati di cinema d’autore, ha inaugurato tra le tante categorie di film disponibili alla visione una sezione denominata “Indie d’America”, ovvero una esclusiva selezione di film indipendenti americani di quelli che spesso non arrivano neanche al Sundance Film Festival (che tra i festival più celebri, è quello che dimostra maggiore attenzione verso questo tipo di esperimenti) e che invece circolano in festival dedicati esclusivamente al cinema indipendente e sperimentale.  Tra nomi perfettamente noti a chi ama questo tipo di cinema “al margine”, come quelli di Harmony Korine e John Cameron Mitchell, spunta Scott Cummings, regista americano collegato ad un altro nome particolarmente rilevante che si trova nella lista: quello di Eliza Hittman.  Di Hittman, che con il suo “Never Rarely Sometimes Always” è riuscita a vincere il gran premio della giuria all’ultimo Festival del cinema di Berlino, Mubi ha scelto di proporre “It felt like love”, primo lungometraggio risalente al 2013; nello stesso anno, la regista lavora come produttrice ad un altro progetto, questa volta proprio del compagno S. Cummings, con il quale conduce una ricerca molto più che peculiare.

Il risultato della ricerca, il film “Buffalo Juggalos” è anch’esso parte dei titoli scelti dalla piattaforma streaming, e tra tutti gli altri, è quello che sembra catturare di più l’attenzione a causa di immagini folgoranti e un’aura di mistero che stimola avidamente la curiosità. Ma di che parla “Buffalo Juggalos”? Chi non ha mai sentito la parola “Juggalos” prima d’ora, e decide tuttavia di addentrarsi nell’opera, non può che rimanere affascinato dalle immagini ipnotiche filmate dal regista, ma attanagliato da una grande confusione. I pagliacci dal volto dipinto che abitano il film non sono elementi metaforici o simboli creati dal nulla: sono individui reali che interpretano loro stessi. I personaggi sono persone, più precisamente, sono esponenti della sottocultura Juggalo, ovvero, fan degli Insane Clown Posse (ICP). Gli ICP (il duo formato da Violent J e Shaggy 2 Dope, entrambi originari di Detroit) cominciano a produrre musica a fine anni ottanta, attingendo a generi come l’horrorcore e il gangsta rap, mescolandoli ad influenze punk e psichedeliche. Ben presto l’estetica del gruppo diviene fondamentale, immersa in un immaginario circense mescolato al goth: i due esponenti della scena suburbana di Detroit cominciano a dipingersi il viso come farebbe un Clown, e a professare il mito divino del “Dark Carnival”, una specie di profezia apocalittica proveniente da un sogno fatto proprio da Violent J.

Di conseguenza, l’intera fanbase del duo segue la vocazione, e ad inizio anni novanta i concerti degli ICP brulicano di clown gotici, migliaia di persone che adottano l’estetica e l’ideologia dei loro idoli, fino a professarla come una religione. Il termine “Juggalo” che proviene dal brano “The Juggla” dall’album “Carnival of Carnage” del 1992, comincia così a indicare un numeroso gruppo di persone che non solo ascolta la stessa musica ma utilizza lo stesso vocabolario esclusivo, indossa gli stessi vestiti, beve la stessa bibita (la Faygo, bevanda alla soda che gli ICP versano sulla folla ai concerti). Nascono così neologismi ed elementi concettuali come “Juggalette”, “Clown Love”, “Juggalo Power”, accompagnati da iconografie come il logo della Psycopathic Records, etichetta fondata dagli stessi ICP, che raffigura un uomo con l’ascia chiamato Hatchet Man

Fornita un’introduzione al mondo Juggalo, torniamo al film: cosa si vede nelle immagini che ritraggono i fan del rap duo?

 Nei primi minuti del film, osserviamo gli appartenenti alla sottocultura (di tutte le età) ripresi in quelle che sembrano azioni quotidiane e piuttosto ordinarie. I nostri protagonisti con i volti dipinti fumano insieme sul retro di un furgone, tosano l’erba del loro cortile di casa, si intrecciano i capelli a vicenda, sono coinvolti in atteggiamenti romantici tra loro, alcuni addirittura portano i loro bambini, anch’essi truccati da clown, al parco per dondolare su delle altalene. L’accostamento tra lo scenario in cui si muovono i personaggi, (la città di Buffalo) piuttosto grigio e scarno, e l’elemento comico dovuto alla pittura loro volti, non fa che costruire lentamente una tensione sempre crescente, una sensazione di sottile inquietudine dovuta all’elemento grottesco del dualismo squallido-bizzarro, terribilmente concreto ed innaturale.  

Le atmosfere “comicodrammatiche” che impregnano lo sguardo dello spettatore non sono nuove a chi ha un po’ di familiarità con l’opera di John Waters, il padre del cinema camp e grottesco, a chi ha guardato almeno una volta “Trash Humpers” di Harmony Korine, che porta queste sensazioni all’estremo (e al disgusto), o a chi, riferendoci a un’opera decisamente più accessibile, si è imbattuto nell’originalissimo “Un sogno chiamato Florida” di Sean Baker, che racconta lo squallore della periferia americana partendo dai dintorni del Disney World di Orlando, costellati da hotel lugubri che cercano di riprendere l’immaginario fiabesco e coloratissimo dei racconti Disney. Guardare con uno sguardo burlesco al deprimente, al desolato e all’abbandonato è una caratteristica non poco presente dunque nel cinema indipendente, e che si svela negli occhi tristi dei protagonisti del film di Cummings.

Mentre le immagini di situazioni giornaliere ci scorrono davanti agli occhi attraversate da una carica di angoscia non indifferente, le situazioni cominciano a farsi sempre più caotiche, sregolate, sempre più lontane dall’ordinario: prima, un Juggalo che indossa una T-Shirt con l’Hatchetman viene aggredito in una discarica d’ auto, poi un uomo con lo stesso simbolo tatuato sul petto è ritratto mentre è intento a ferirsi la lingua con un’ascia, succedono poi acrobazie automobilistiche, atteggiamenti sessuali espliciti e furti, in cui il regista ci accompagna con riprese statiche destinate a diventare sempre più dinamiche mentre si è intenti a scendere progressivamente nell’inferno Juggalo di atti violenti e feste erotiche a luci neon. Negli ultimi minuti del film, il rilascio catartico della tensione accumulata durante quelli precedenti: l’esplosione di un’auto, lasciata bruciare sotto la pioggia. I titoli di coda chiarificano cosa avevamo già intuito: tutti gli attori nel film, salvo un paio, sono dei veri appartenenti alla cultura Juggalo. Ma cosa nasconde questo spietato fanatismo, e cosa ci racconta dunque il regista Scott Cummings della sottocultura di fans degli Insane Clown Posse, a cui ha recentemente confermato di far parte persino Elon Musk

Tutto ha inizio nel 2011: per la prima volta, in un rapporto dell’FBI viene utilizzato il termine “Juggalos” per indicare quella che secondo le investigazioni è a tutti gli effetti una gang criminale, assolutamente lontana dall’innocuo caos alimentato da una semplice eccitazione scatenata dall’ascolto della propria band preferita. Il numero dei crimini connessi alla sottocultura Juggalo è così alto che, spogliato da ogni connotazione di origine musicale, è da considerare alla pari con le gang più violente riconosciute dalla polizia americana, come i Bloods o i Crips. Da quel momento, le controversie non fanno altro che rendere la vita dei fan degli ICP più difficile che mai, pregiudicando anche i Juggalos che con la violenza non hanno mai avuto a che fare, coloro che continuano a dipingersi il volto unicamente per professare un amore verso qualcosa in cui si riconoscono, un punto fermo di comprensione ed accettazione.

Nel 2017, la stampa americana vede culminare gli eventi in un solo grande avvenimento, ovvero la marcia su Washington del 16 settembre; contemporaneamente ad un rally Pro-Trump, un gruppo formato da centinaia di clown gotici protesta, nel cuore del luogo simbolo del governo americano, contro le vessazioni e le condanne a cui da troppi anni è costretto a difendersi: una madre racconta di aver perso la custodia dei figli a causa della sua appartenenza alla sottocultura Juggalo, molti altri raccontano di aver perso il lavoro, altri di essere stanchi di essere considerati degli spietati criminali. Gli striscioni e le grida dei megafoni parlano chiaro, i Juggalo vogliono una rivalsa, desiderano poter ascoltare la loro musica preferita senza essere additati come malviventi, indossare il logo della Psycopathic Records e bere Faygo con orgoglio, in nome di nient’altro che un amore collettivo. 

I’m a Juggalo Not a Gang Member” (Sono un Juggalo, non il membro di una gang) appare scritto sulla T-shirt di uno dei protagonisti del film di Scott Cummings, che con soli 29 minuti dimostra di essere in grado di portare a compimento un racconto non solo visivamente suggestivo, ma storicamente (e culturalmente) importante.

Come suggeriscono le pratiche etnografiche dei più importanti antropologi, il regista decide di arrivare sul campo, la città di Buffalo, e lasciarsi assalire dalle suggestioni di una sottocultura che non conosce, di cui non fa parte, e che tuttavia propone di prendere in esame; Cummings trascorre interi mesi con i Juggalo, stringe rapporti indispensabili con alcuni di loro, litiga pesantemente con altri, si ritrova coinvolto in risse e contemporaneamente trova un luogo di accettazione e solidarietà. Proprio come Robert Flaherty in quello che è considerato il primo film etnografico, il meraviglioso “Nanook of the north”, Cummings ci permette di addentrarci in una realtà così vivida ed umana poiché riesce ad ottenere la fiducia dei soggetti che racconta, decide che dargli una voce è ben più importante che giudicare, e come in uno dei saggi di Dick Hebdige, descrive un racconto “sotterraneo” in tutte le sue gradazioni e contraddizioni.

In fondo, questo è il ruolo che una parte di cinema indipendente svolge da sempre: dare voce a realtà marginali a cui spesso non viene dato spazio altrove, e fornire chiavi di interpretazione della cultura contemporanea assolutamente inedite. Film come “Buffalo Juggalos” e tutti gli altri selezionati per essere fruiti dal pubblico di Mubi non saranno mai blockbusters, non venderanno mai tanti biglietti come farebbe un film con un budget stellare, alcuni forse non arriveranno mai neanche in sala, ma è più che probabile che sotto la loro parvenza puramente estetizzante, si nasconda molta più ricerca antropologica di quanto non ci sia all’interno di qualsiasi altro film in palinsesto.

Arianna Caserta

About the author

Arianna Caserta

Arianna Caserta (Roma, 2001) frequenta il corso di Cinema, fotografia e televisione dell’Accademia di Belle Arti di Napoli e si occupa di critica, vertendo la sua area di ricerca su cinema (con particolare attenzione all’indipendente e lo sperimentale), arte contemporanea, filosofia e nuovi media.

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