Interviste

“INDIA – Complice il silenzio” | Intervista all’autore

Da un viaggio di cinque mesi in solitudine attraverso le terre dello Sri Lanka, India, Bhutan, Nepal, Tibet e Kashmir, è nato un diario in versi: “INDIA – Complice il silenzio“. Abbiamo intervistato l’autore, Luca Buonaguidi, che ha fatto della sua esperienza personale un viaggio di poesia e di immagini.

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Sara Riga: Nel tuo libro hai abbinato la letteratura di viaggio on the road alla poesia: perché hai scelto questa soluzione stilistica?

Luca Buonaguidi: Perché l’elemento poetico del linguaggio è il mio modo di fare i conti con ciò che vivo, perché la brevità della poesia mi ha permesso di sottrarre l’essenziale dalla totalità della mia esperienza e perché la poesia è l’unico modo con cui posso dire e sentire ciò che ancora non so, che era ciò che più mi premeva testimoniare di un viaggio. E specialmente di un viaggio in un (sub)continente noto per la sua ardua intelligibilità. La poesia è un linguaggio oltre al conosciuto e al conoscibile; come lo è l’esperienza dell’India, se ci si arrende ad essa senza tentare di piegarla alla nostra logica etnocentrica, se si accetta di non avere il pieno controllo di ciò che stiamo vivendo, lasciandosi accadere entro la sua corrente entropica.

“INDIA – Complice il silenzio”: che compagno di viaggio si è rivelato il silenzio nei 5 mesi di solitudine?

Non lo definirei tanto un compagno di viaggio, quanto uno sfondo costante dietro a tutto ciò che ho vissuto in viaggio e al contempo una disposizione interiore, per me inesplorata all’epoca. L’India è una lezione di silenzio pur non essendo affatto un paese silenzioso, ti fa capire che sei così piccolo e insignificante che puoi produrre tutto il rumore che vuoi, ma non ti sentirà comunque nessuno, figuriamoci quel Dio distante a cui vuoi far arrivare la tua piccola voce. Allora unirsi al rumore diviene un atto di vita, unirsi al silenzio un atto di assenza. Hanno entrambe pari ragione di essere, ma se il rumore in quanto attività umana è intero, completo, proprio, il silenzio potrà essere soltanto parziale fin tanto che ci sarà vita sulle terra. In Occidente la dimostrazione pratica di ciò l’ha dato John Cage col suo “4’33””, in cui c’è un musicista che resta fermo, muto davanti al suo strumento ma ci sono i colpi di tosse del pubblico, il suono degli oggetti, il rumore che produce la materia. E non possiamo eliminare il rumore di fondo dell’esistenza, è sì un disturbo nella ricerca dell’assoluto ma è il segno stesso della vita, allo stesso tempo. Il silenzio è forse un senso nuovo oltre i cinque sensi dati all’uomo, è quel tatto del tutto che non arriva mai a toccarlo, una tensione spirituale che non viene mai appagata del tutto se non negli stati mistici più assoluti, che sono la ricompensa di una disciplina estrema in cui io non sono che un neofita alle prime armi, e per giunta autodidatta. Per questo non posso chiamarlo compagno, non ne sono all’altezza. Ma solo averne percepito la possibilità oltre a tutto quello che ho vissuto in viaggio lo ha reso complice della mia esperienza dell’India.

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Nella prefazione al libro citi un’espressione di Moravia “l’esperienza dell’India”. Come potresti riassumere in tre parole la tua personale esperienza/testimonianza in questo Paese?

Transito, assenza e libertà – dal conosciuto.

Quanto di avventuroso e quanto di spirituale hai cercato/trovato in questo viaggio?

Sono due dimensioni legate tra loro nel mio viaggio. Di avventure ne cercavo e ne ho trovate: quando se ne ha un’altra occasione simile se non mentre si viaggia da soli, in India, a ventanni? Dopo il primo mese di studio, non mi sono più tirato indietro e me ne sono successe di tutti i colori. Così ho imparato a fare della mia vita un gioco, io che mi prendevo molto-troppo sul serio ho capito che ero una piccola cosa insignificante, vedendo da lontano che anche il mio micromondo andava avanti senza di me. La vita di tutto ciò che era la mia vita, i miei cari, i miei luoghi prima del viaggio, proseguiva oltre la mia assenza temporanea. È stata una piccola morte, una paura autoindotta per imparare a fare i conti con la paura delle paure, la morte. Prima di partire non avevo il mito dell’India, non ero invece alla ricerca particolare di spiritualità e trovarla è stata una sorpresa di cui invero tutti mi avevano avvertito, ma in cui io non credevo davvero. Ne avevo paura. Perdersi fa paura a tutti almeno all’inizio, e perdersi in India è “dolore e dolcezza” (p. 55) ed è proprio quello che ho provato a testimoniare.

Le foto che accompagnano le poesie sono tutte in bianco e nero, però curiosamente all’India si associa spesso un immaginario molto colorato. Perché hai compiuto questa scelta?

L’idea di fondo è la stessa di quella di testimoniare l’India, un paese verboso e rumoroso, attraverso la poesia e il silenzio: trovare un altro punto di vista, diverso, sottaciuto, su qualcosa di cui è già stato detto tutto e il suo contrario. Il bianco e nero realizzato da Ylenia Cantello sulle mie fotografie a colori – senza alcuna pretesa estetica ma di mera appendice iconica, e sentimentale, ai testi – segue lo stessa logica: estrarre l’essenziale da una scena che lo presenta indubbiamente, ma che inizialmente lo vela (il velo di Māyā di Schopenhauer), lo nasconde dietro l’abbondanza di essere dell’India. Il bianco e nero ne libera quel senso latente, aperto e assoluto rompendo la prigione del significante.

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A quale poesia sei maggiormente legato per un momento, una situazione, un’emozione particolare che hai vissuto nel viaggio?

Tutte sono legate a un momento, a una situazione e a un’emozione. E di quasi tutte ricordo ancora perfettamente come sono arrivato a sentirle, prima che a scriverle. Nel libro ci sono anche casi di perfetta corrispondenza tra una fotografia e la poesia che la segue. Ma a una più di tutte sono legato, un vero satori o insight o come lo vogliamo chiamare, perché testimonia la svolta spirituale dentro l’India, il viaggio e la mia vita, ed è la poesia più breve che abbia mai scritto:

Sono felice.

Potrei aggiungere altri dettagli

ma la felicità sta nel toglierli.

Pensi che potrai ripetere una pubblicazione simile anche per altri viaggi che farai in futuro o credi che questo “esperimento letterario” rimarrà intrecciato alla tua esperienza in India?

È possibile, ma non posso né voglio prevederlo. Ciò che posso prevedere è che farò il possibile per tornare a viaggiare, presto e a lungo. E solo allora saprò.

Sara Riga

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About the author

Sara Riga

Da sempre appassionata di arte e cultura contemporanea, si è laureata alla facoltà di Lettere e Filosofia di Firenze. Scrive, viaggia, legge, ascolta musica e tiene gli occhi ben aperti su tutto ciò che la circonda.

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