Rivoluzionari da salotto, estremisti borghesi e intellettuali da terrazza: chi sono, o meglio, cosa sono i radical chic? Abbiamo provato a tracciarne un profilo con parole e immagini, per comprendere le caratteristiche, gli atteggiamenti e i gusti di questo fenomeno socio-politico.
▪ Come è nato il termine radical chic? Nel mese di giugno del 1970, la redazione del New York Magazine pubblicava un articolo intitolato Radical Chic, That Party at Lenny’s, scritto da colui che sarebbe stato, 17 anni dopo, l’autore del romanzo Il falò delle vanità. Il giornalista, Tom Wolfe, dalle simpatie repubblicane e dall’approccio moderatamente conservatore, ebbe la fortuna di osservare uno stralcio di “curiosa realtà” a casa del compositore Leonard Bernstein, durante una festa organizzata da sua moglie Felicia allo scopo raccogliere fondi per il gruppo rivoluzionario Black Panther Party. Ebbene, Wolfe, in quell’attico a Manhattan, osservò e registrò il tipico senso di appagamento che aleggiava tra le personalità di spicco del mondo della cultura e dello spettacolo, mentre gustavano tartine al roquefort servite da camerieri in livrea.
▪ Progressisti dalle buone intenzioni. Gli intervenuti al party “giocavano” a raccogliere fondi per sovvenzionare la politica di strada: un’intenzione progressista, che non partiva dal basso, ma dall’alto; un modo di comportarsi che Wolfe battezzò “radical chic”, ovvero persone abbienti e di indole perlopiù conservatrice che si atteggiano però a “radicali” di sinistra.
▪ (In)coerenza radical chic. Il termine, con la sua scivolosa musicalità, entrò rapidamente in uso, talvolta assumendo accezioni diverse da quelle originali: in Italia venne ripreso da Indro Montanelli e velocemente fatto proprio dalla corrente ideologica destrorsa che lo utilizzò per indicare quei perbenisti borghesi di sinistra che, con scarsa coerenza e credibilità, facevano propri atteggiamenti tipici dell’area più estrema. Con il passare del tempo, la definizione di “radical chic” trovò maggiore diffusione tra quelle correnti di sinistra che accusavano la classe dirigente riformista di scarsa attenzione verso i problemi della gente comune, e successivamente venne utilizzato per descrivere quegli esponenti intellettuali, del mondo della cultura e dell’arte, che mostravano un’aderenza di facciata ai valori rivoluzionari, uniti, però, a un malcelato perbenismo progressista da middle-class.
▪ Ossessioni e manie del radical chic. Istruiti, colti, indubitabilmente benestanti, solitamente agnostici (in attesa di trovare la propria spiritualità attraverso un lungo viaggio in India), tipicamente esterofili, i radical chic subiscono il fascino dell’esotico e sono ossessionati da alcuni cliché comportamentali e ideologici, quali: il cibo, la letteratura, la musica e il cinema.
▪ Cibo: tra biologico, chilometro zero, D.O.C, D.O.P., Eataly e Mercato equo e solidale. Il cibo è tra le cose che meglio tratteggia la condotta radical chic, soddisfacendo il bisogno di elitarismo e, al contempo, placando quel “senso di colpa” verso le fasce più deboli e meno abbienti della popolazione.
▪ Letteratura: da Cioran a Kafka, da Dostoyevsky a Brecht, passando per Flaubert e Scott Fitzgerald. Pur amando il classico erudito e il left-oriented, il radical chic non disdegna contemporanei come Baricco o Foster Wallace, optando per Gipi tra i graphic novel.
▪ Musica: tutti i cantautori, da Bob Dylan fino a Francesco Guccini. In generale, tutta la musica definibile come “impegnata”, dunque anche la classica, ma sempre meglio la contemporanea di autori come Cage o Berio.
▪ Cinema: da Ejzenštejn a Petri, dal bistrattato Pasolini al compulsivo narcisista Nanni Moretti, il cinema prediletto dal radical chic è caratterizzato – indovinate? – dall’indubbia matrice ideologica, spesso nostalgica e talvolta autoreferenziale. Memorabile l’episodio della saga di “Fantozzi” in cui viene beffardamente canzonato l’atteggiamento di chi, soprattutto negli anni di protesta, faceva del “cinema impegnato” una questione di serissima appartenenza culturale e radicale:
▪ Il marxista moralista, tra BoBo e Gauche caviar. Da non confendere con l’hipster (le cui caratteristiche principali sono l’ostentare un riconoscibile anticonformismo e il disprezzare tutto ciò che è mainstream, pur riconoscendo di far parte della cultura post-moderna), il Radical Chic possiede diverse sfumature di definizione a seconda dell’area geografica di provenienza. Il comune denominatore (oltre al suo potere d’acquisto) resta sempre la matrice politica, insieme a una profonda, intrinseca contraddizione: mostrarsi e parlare da marxista; agire da immobile, innocuo, comodo moralista.
▪ Nelle “Americhe”: in Brasile i Radical Chic vengono indicati con il termine Esquerda festiva (sinistra festaiola), in Cile Red set, per via dell’assonanza con l’espressione jet-set. Negli USA, oltre, naturalmente, a Radical Chic, è in voga anche il più sottile Limousine liberal.
▪ In “Europa”: se in Francia li chiamano BoBo, ovvero Bourgeois-bohème, in Germania diventano Bolscevichi da salotto (Salonbolschewist), un ramo della più vasta categoria Toskana-Fraktion (parlamentari di sinistra con la passione per le ville nel Chianti).
▪ Dai greci antichi ai giorni nostri. Al salotto come luogo mondano-intellettuale per eccellenza si rifanno anche i greci (Aristerà tu saloniù , sinistra da salotto). In Norvegia si predilige un sobrio Radikal eleganse, mentre molti lo associano al cibo e al vino di lusso: in Inghilterra è lo Champagne socialist, in Irlanda diviene Smoked salmon socialist. I portoghesi, come gli spagnoli, scelgono il caviale (Esquerda caviar e Izquierda caviar), gli svedesi e gli olandesi tornano al vino con Champagnevänster o Rödvinsvänster (sinistra vino rosso), e Chardonnay socialist. A ognuno il suo…
Primavera Contu
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