Da Stephen King a Charles Baudelaire, passando per Walt Disney, Bergman, Lee Masters e perfino Arlecchino, fino ad alcuni horror movie della nostra epoca e alle inquietanti immagini di Laurie Lipton: un excursus di riferimenti vari ancorché vaghi indica la multiforme fortuna del tema iconografico e letterario della Danza Macabra, che fa la sua comparsa in Europa fra XIV e XV secolo, parallelamente al demone della peste, ma anche alla germinazione di un pensiero più complesso sulla realtà, che vede l’uomo del Medioevo tentare di indagare più a fondo il suo rapporto col mondo terreno.
Sottesa tra la «pia esortazione» e il registro della «satira sociale», la Danza Macabra è una sorta di carnevalesca messa in scena dell’implacabile ferocia della morte, intesa – e qui sta la ricchezza del tema – come giustizia morale e sociale, terrena ed ultraterrena, oltre che come minaccia incombente. Uomini (e in seguito anche donne) di ogni età e rango, vengono accompagnati dai loro stessi scheletri verso il mistero della morte, in una danza composta e spettrale che congela ogni emozione.
Il terrificante e ancestrale memento mori ha però molteplici sfumature e declinazioni a tratti satiriche che affondano le loro radici nella storia più antica.
Gli Egizi insegnavano a guardare in faccia la morte con leggerezza, scegliendo un momento conviviale, il banchetto, per passare la statuina in legno di un morto dentro la bara e brindare tutti insieme non tanto alla morte, quanto alla vita. E così avveniva anche nei banchetti della Roma Antica, come testimonia Petronio mentre descrive la cena di Trimalchione. La morte, in fondo, rende gli uomini uguali e concede loro di esprimersi anche dalla tomba, come accade nel cimitero di Spoon River della celebre antologia di Edgar Lee Masters: «In death, therefore, i am avanged» afferma la sventurata Ollie McGee.
La Storia non manca di testimonianze letterarie e figurative che fanno riferimento a questa iconografia: risale al 1376 un poema di Jean Le Fèvre, Respit de la Mort, in cui viene menzionata per la prima volta la «dance de Macabré», vale a dire la “danza di Macabro” – l’aggettivo è stato coniato in seguito, mutuato quindi da un nome proprio di persona – che va forse identificato con Giuda Maccabeo o con la stirpe ebraica dei Maccabei, non è ben chiaro. L’etimologia incerta del termine lascia ancora aperte numerose ipotesi, da quella che fa risalire l’origine all’arabo “kabr” (tomba) e “makabr” (cimiteri), a quella che individua invece nel latino tardo “macheria” (muro o parete, riferito a quelli dei cimiteri o delle chiese dove venivano raffigurate le danze macabre) la provenienza dell’aggettivo, fino all’ipotesi di una derivazione dall’anglosassone “make- break”, che allude allo scricchiolio delle ossa rotte.
Queste sono solo alcune delle piste etimologiche. Ma è certo che la scena di questa grottesca comunione danzante tra vivi e morti affonda le sue radici in altri due temi iconografici che l’arte esplora a partire dalla seconda metà del Duecento: quello denominato “Incontro dei 3 vivi e dei 3 morti” – leggenda dalle tinte fosche che vede protagonisti 3 cavalieri e i loro rispettivi cadaveri- e il famigerato “Trionfo della morte”, di cui scrisse anche Petrarca tra il 1356 e il 1374.
Dal Quattrocento, la danza macabra orna le pareti dei cimiteri, come nel caso di quello degli Innocenti a Parigi – luogo molto popolare all’epoca, in cui era possibile passeggiare e persino dare delle feste!-, diventando materia letteraria sempre più diffusa, anche nelle incisioni, soprattutto tedesche e francesi. È però nel Cinquecento, con il tedesco Hans Holbein il giovane e le sue Imagines Mortis (1538), che si impone iconograficamente lo scheletro danzante, laddove in precedenza si trovavano solitamente corpi putrefatti ancora umani, a riprova della scabrosa e ossessiva preoccupazione, da parte dell’uomo medievale, per la miserevole dissoluzione del proprio corpo, impasto pulsante ma mortale di carne e sangue.
Lo sgomento di fronte alla morte e il ribrezzo per il destino funesto del corpo sopravvivono allo scorrere dei secoli e vengono rielaborati nell’Ottocento dal sombre flâneur Baudelaire che, nella sua “Danse Macabre” (contenuta nei Fleurs du mal), descrive la Morte con infervorate parole d’encomio e come una nobildonna ben agghindata:
«Alcuni diranno che tu sei una caricatura;
amanti ebbri di carne, non capiscono
l’eleganza senza nome dell’umana armatura.
Ma tu rispondi, grande scheletro, al mio gusto più caro!
Ridicola Umanità, la Morte mira in ogni clima,
sotto qualsiasi sole, le tue contorsioni,
e sovente, come fai tu, profumandosi di mirra come te
mischia la sua ironia alla tua insania!»
Pochi anni prima è un altro francese, James Tissot, a rendere omaggio in maniera quasi comica all’antico tema medievale della danza macabra, con il dipinto “La danza della Morte” (1860), sorta di fumettistica scampagnata di umane figure verso le viscere della terra.
Come si vede anche nell’ultima scena de Il Settimo Sigillo, in cui i toni sono decisamente più drammatici e la scampagnata, ora in salita, diventa una catena umana di dolore, terrore e riluttanza; ma la Morte, ancora una volta, appare elegante, impersonata da un magistrale Bengt Ekeroth.
Nella celeberrima “Danse Macabre” del 1874, poema sinfonico di 7 minuti di Camille Saint-Saëns, la Morte ha invece il suono tetro di un violino in Mi minore; e sempre in musica, nella Skeleton Dance della Disney (1929) gli scheletri irriverenti e saltellanti si divertono a spaventare gufi e gatti di un cimitero, subito prima di darsi a danze acrobatiche e di usare le loro stesse ossa per fare della musica.
“Danse Macabre” è, inoltre, un saggio di King – sorta di compendio della letteratura e dei migliori film, horror e fantasy, usciti tra gli anni Cinquanta e gli Ottanta – pubblicato nel 1983 (ma uscito in Italia soltanto 9 anni dopo), che si rifà nel titolo proprio all’opera omonima di Baudelaire, mentre s’intitola semplicemente “Family Reunion” un disegno del 2005, che sembra una fotografia, uscito dalla mano caustica della statunitense Laurie Lipton, che reinterpreta la Danza Macabra in chiave ironica.
Rimane Arlecchino: anche lui ha avuto a che fare con la Morte, maschera comune nella commedia dell’arte del meridione, e con essa ha danzato dopo aver fallito il compito di aiutarla a fare un po’ di “pulizia” mentre era al suo servizio.
Lorenza Zampa
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