Prendere coscienza del fatto che inevitabilmente ogni vita sia destinata a perire, che la morte sia inesorabile e che il mondo, seppur pazientemente, rimanga perennemente in attesa di poterci distruggere così come ci creò una volta, è senza dubbio il trauma originale, la scossa più pesante a cui l’uomo abbia mai dovuto far fronte. Ancor di più, quando si scopre che il breve scintillio della vita sulla terra non è poi così luminoso come piacerebbe pensare. Come può quindi un fragile essere umano accettare di dover sopportare laceranti sofferenze, continue delusioni, l’idea che la felicità non possa essere raggiunta, cosciente del fatto che ogni sforzo verrà presto annientato e reso futile dall’arrivo della morte?
Da sempre è chiara l’esistenza di un solo modo per cristallizzare la realtà e renderla eterna, per creare realtà virtuali parallele in cui non ci sia spazio per la mortalità: l’arte. Gli artisti, gli unici ad aver trovato il metodo di creare qualcosa che vada oltre la caducità. Il mondo parallelo dell’opera d’arte, più o meno somigliante che sia alla realtà da cui essa scaturisce, non solo sembra fermare il rapido scorrere del tempo, ma riesce straordinariamente a rendere universali visioni assolutamente singolari e recondite, sospendendo così la dolorosa verità che attanaglia l’uomo: quella per cui ognuno è solo, senza alcuna speranza di trovare conforto o comprensione da nessun altro che lo circondi. L’opera d’arte, così, annullando o perlomeno interrompendo le due paure più grandi dell’uomo, cioè la morte e la solitudine, si rivela come l’unico mezzo di fuga dalla sofferenza giornaliera di una vita a cui si continua, inutilmente, ad attribuire un senso.
Secondo V. Ramachandran, “L’arte si è evoluta come simulazione virtuale di una realtà”, a cui la natura ha dovuto imporre dei limiti, per non far sì che la simulazione diventasse persino più reale della realtà stessa. L’arte ci permette di essere qualcun altro, di provare sensazioni diverse, di proiettarci in altre dimensioni, di certo più consolatorie.
In Mister Lonely, un gruppo di outsiders, reietti della società che non si sono mai sentiti al posto giusto, fuggono dalle vite a loro ingiustamente assegnate dal destino per fingere di essere persone diverse: celebrità o personaggi storici di alto calibro. Il loro ruolo nella società, quello precedente all’impersonificazione, viene totalmente messo da parte e le loro personalità finalmente liberate solo grazie alla finzione e al gioco di ruolo. Quello che i personaggi di Mister Lonely mettono in atto è una trasformazione in icone, che per natura, da simboli per qualcosa di qualcosa di più profondo, sono eterni. Un’icona non invecchia, non muore e porterà con se sempre lo stesso significato.
Quando il desiderio di voler diventare un simbolo, un concetto, si sovrappone al naturale ed insito bisogno di dipendere dalla sfera di cose che rendono umano l’essere umano (quali l’amore, le relazioni, la corporalità, il bisogno di attenzioni, le ansie) appare chiaro che cercare di sovrapporre il sogno alla realtà, l’icona al messaggio, la mortalità all’immortalità non basta a raggiungere la verità, e neanche ad accettarla.
Quando Kazimir Malevič dipinge il suo quadrato nero su fondo bianco, l’idea che lo guida è quella di creare qualcosa che sia totalmente scollegato dai parametri realistici, da qualsiasi forma naturale, temporale o spaziale. La verità, se mai sia possibile raggiungerla, non verrà mai scoperta cercando nell’oggettuale, ovvero in ciò che non è altro che pura convenzione. Secondo Malevic, guardando al mondo oggettuale come un campo di ricerca per le risposte sul mistero della vita, gli artisti prima di allora avevano commesso il grave errore di imprimere al divenire il carattere dell’essere.
“L’arte non ha linguaggio né forma, non si svela nelle cose” e ne consegue, quindi, che l’eccitazione dello slancio vitale non è affatto rappresentabile né dicibile, si trova nel non-oggettuale, in qualcosa di supremo, di altro, qualcosa di superiore.
Quando i protagonisti di Mister Lonely, dopo sofferenze e delusioni, si rendono conto di aver cercato la propria verità sfuggendo alle strutture imposte dalla società solo per crearne delle altre, in un mondo in cui la verità proprio non può essere raggiunta, le loro vite hanno da affrontare un grave punto di rottura: il caos sopraggiunge, è assoluto ed incurabile, ed ogni speranza di non esser di nuovo lasciati soli da Dio, cade miseramente. Cosa spinge Malevic a pensare che la verità sia da rappresentare con immagini provenienti da un nuovo, superiore spiritualismo che prescinda dalla religione? Cosa lo spinge a trasformare le sacre icone di Rublev in forme monocromatiche? Così come l’uomo ha cercato per tanto tempo invano di raggiungere la verità attraverso l’oggetto (il reale), così ha cercato contemporaneamente conforto in un’entità superiore, un’entità divina di cui non si è sicuri dell’esistenza. Nient’altro che un’illusione, quindi.
Mentre i nostri Look-Alikes conducono la loro personale ricerca della verità indossando panni di altre persone, il regista Harmony Korine ci racconta un particolare evento parallelo: Padre Umbrillo (interpretato da Werner Herzog, la cui opera da sempre indaga la linea labile tra realtà e finzione) sconvolto quando una delle suore della sua comunità, caduta da un elicottero pilotato da egli stesso, comincia a fluttuare a mezz’aria, uscendone completamente illesa.
La comunità grida al miracolo e Padre Umbrillo si convince del fatto che dimostrando di avere fede in Dio, ogni devota possa lanciarsi da inquantificabili altezze e cominciare a volare nell’azzurro del cielo, senza alcuna paura della morte.
Il regista, tuttavia, nelle ultime immagini del film, propone la sua visione sull’atteggiamento religioso di affidare la propria salvezza ad un Dio maggiore. Nel triste epilogo, i corpi delle suore giacciono senza vita sulla riva di una spiaggia a seguito di un disastroso incidente che ha visto l’elicottero schiantarsi al suolo.
Che cosa rappresenta la caduta dell’aeromobile se non la caduta dei valori formulata da Friedrich Nietzsche e assimilata in seguito dal pittore Ucraino? Come si potrebbe non vedere, tra i cadaveri delle credenti e le macerie infiammate, la situazione di confusione dell’uomo disingannato, dopo aver scoperto che ogni brandello di illusione su cui avrebbe mai potuto trovare un appiglio è stato distrutto?
“Siamo qui, nella nazione distrutta stanchi e feriti.
Siamo stati lasciati da soli, senza niente.
Siamo stati abbandonati.
Siamo come il vomito sulle strade fuori a un bar di città, relegati sul fondo del barile, e tutte le capacità di comprensione e d’amore sembrano scomparse per sempre.”
Le parole del personaggio interpretato da Herzog annunciano l’ineludibile concetto formulato da Nietzsche, quello secondo cui “Dio è morto”, lasciandoci soli in balia del disordine più assoluto. “Per poter sopravvivere, c’è bisogno di diventare come animali…e di rinunciare a ogni senso di civiltà e comprensione” continua Padre Umbrillo, quasi professando il mito dell’oltreuomo Nietzschiano, o alludendo al concetto suprematista di creare una nuova dimensione spirituale in cui non ci sia spazio per le strutture sociali che sono appartenute al mondo oggettuale.
Per Korine, quindi, come per K. Malevic, la verità non può essere cercata nell’oggetto, quindi creando ulteriori finzioni e convenzioni, e neanche nella religione, poiché anche questa è una di quelle.
Se per alcuni degli impersonificatori l’idea di non poter essere per sempre protetti da un onirico status di icona è insopportabile, per Michael (Diego
Luna) la delusione incarna il bisogno di una svolta, un incentivo a spogliarsi dai panni della Pop Star che per tanto tempo lo hanno consolato dal doloroso desiderio di voler essere qualcun altro. Per la prima volta Michael, di cui non conosciamo il vero nome, sembra pronto a raggiungere il grado zero, a mostrare cosa c’è sotto al trucco e i travestimenti, a farsi investire dai continui mutamenti a cui il normale scorrere della vita umana lo sottoporrà. Ma se la vita stessa è divenire, qual è il senso di imporre la propria identità su di essa? Può davvero l’uomo diventare un tutt’uno con il flusso dell’esistenza fondendosi con esso per sempre?
Nella scena finale di Mister Lonely, Renard, l’agente di Michael interpretato dal regista Leos Carax, confessa tutto il suo dissenso nei confronti della scelta del protagonista di non indossare più i panni di un’icona pop.
“Tu sei Michael Jackson. Si, si, si, lo sei. Dimmi… perché vuoi essere come tutti gli altri? Non vedi che tutti gli altri sono infelici?”
Dice Renard, cercando di dissuaderlo. Cinque anni dopo aver prestato il volto a Renard nel film di Korine, Leòs Carax scriverà e dirigerà Holy Motors (2012), la storia di un uomo, interpretato dall’immancabile Denis Lavant, che in Mister Lonely è un imitatore di Charlie Chaplin, che viaggia in una Limousine cambiando continuamente identità e vestendo i panni di innumerevoli personaggi diversi, assumendo così il carattere della vita stessa. L’uomo è trasmutato, è il divenire.
E’ questo forse il destino di ogni uomo, e l’inevitabile verità che Michael scoprirà dopo i titoli di coda di Mister Lonely?
Il film è finito ma la vita continua, ed è chiaro che Harmony Korine si inserisca, insieme a Nietzsche e Malevic, tra coloro che con la loro opera hanno scosso gli animi incarnando la Unwertung aller Verte (Trasvalutazione dei valori) e criticando le strutture sociali e culturali che rispettivamente nella filosofia, nella pittura e nel cinema avevano per tanto tempo cercato appoggio o un Kunstwollen nelle convenzioni di un’illusoria realtà.
Arianna Caserta
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