Fino al 4 novembre, a Osimo in provincia di Ancona, una mostra celebra il Giorgio de Chirico della Neometafisica.
Gli amanti di de Chirico (1888-1978) sanno che l’osservazione e l’analisi delle sue opere deve prescindere da qualsiasi considerazione circa l’evoluzione del suo stile: il grande artista, non poco criticato in vita, soprattutto dopo la stroncatura di Roberto Longhi nel 1919 – che, nel saggio dal titolo “Al dio ortopedico”, lo definisce un «macchinista crudele» -, approda alla genuina riscoperta di se stesso durante la maturità, quando riprende i medesimi soggetti della fase iniziale della sua carriera artistica per riaffermarli con ferrea (e forse anche atarattica) convinzione, che spiazza gli avanguardisti più sfrontati ed eccentrici della sua epoca.


De Chirico aveva questo vizio: creava dei falsi di se stesso, cambiava cioè non i suoi dipinti ma la data di esecuzione, retrodatando spesso le sue opere, come accade con una Piazza d’Italia realizzata dal pittore nel 1933 ma ritenuta opera del 1913 e da lui stesso dichiarata un falso, per spiazzare pubblico e acquirenti, provocando tra l’altro un caso giudiziario con la galleria milanese “Il Milione” tra il 1947 e il 1955.


Accorgersi del trucco, almeno all’inizio, è stato alquanto difficile per la critica. Anche perché, come già detto, non c’è una vera evoluzione stilistica nella sua pittura: i temi da sempre cari – dalle muse ai personaggi manichino dell’epos omerico, fino all’enigma nietzschiano dell’eterno ritorno – vengono continuamente rievocati e arrivano ad assorbirlo per tutto il corso della sua vita.
La cultura di de Chirico è intrisa di grecità e di filosofia tedesca, di «mito e immortalità terrestre» (Baldacci). Tutti concetti condensati sapientemente in alcune frasi illuminanti dell’artista, riportate nei pannelli “letterari”che ad Osimo accompagnano il percorso espositivo all’interno di palazzo Campana, che raccoglie e presenta al pubblico un corpus di poco più di 60 opere – per lo più dipinti ma anche qualche disegno tratto dalle serie “Calligrammes” (fig.4) e alcune (poche) sculture – di proprietà della Fondazione Giorgio e Isa de Chirico.
«Pigliamo un esempio: io entro in una stanza, vedo un uomo seduto sopra una seggiola, dal soffitto vedo pendere una gabbia con dentro un canarino, sul muro scorgo dei quadri, in una biblioteca dei libri, tutto ciò non mi colpisce, non mi stupisce poiché la collana dei ricordi che si allacciano l’un l’altro mi spiega la logica di ciò che vedo: ma ammettiamo che per un momento e per cause inspiegabili ed indipendenti dalla mia volontà si spezzi il filo di tale collana, chissà come vedrei l’uomo seduto, la gabbia, i quadri, la biblioteca; chissà allora quale stupore, quale terrore e forse anche quale dolcezza e quale consolazione proverei io mirando quella scena. La scena però non sarebbe cambiata, sono io che la vedrei sott’un altro angolo. Eccoci all’aspetto metafisico delle cose» (de Chirico, “Sull’arte metafisica”, 1919). Gli fa da contraltare lo scrittore e poeta americano Tennessee Williams, che ebbe a dire con disarmante e oscura ovvietà che «tutto potrebbe essere qualsiasi altra cosa e avrebbe lo stesso significato».

Possibilismo magnetico che non si lascia intimidire né dalle certezze acquisite né dall’imperscrutabilità dei misteri ancestrali, perché i dogmi estetici, il sapere paradigmatico, lo stile forzatamente originale e imprevedibile di un artista, in fondo, non contano niente. De Chirico amava fare quello che gli pareva, al di là delle mode e delle aspettative del mercato dell’arte. Per lui la metafisica è una certezza e non gli importa di scoprire nuovi stili e nuovi sentimenti, tutto è come è sempre stato, l’origine e lo scopo si confondono. «[…] non si può parlare né di ritorno né di partenza. Nessuno, in nessun momento, mi può costringere a dipingere in una maniera o nell’altra. Non esiste nessuna legge in proposito, continuerò a fare ciò che voglio, senza obblighi in assoluta libertà», ipse dixit; era il 1968.
Ma perché tutto questo ripetersi, copiarsi, non reinventarsi, non è da considerarsi sacrilego da un punto di vista estetico non meno che umano (e commerciale anche)? La risposta la dà indirettamente Massimo Pulini nel suo “La coperta del tempo. Dipinti e sculture in letargo” (Ed.Medusa, Milano, 2008) il quale, senza riferirsi a de Chirico, arriva però in un capitolo del suo saggio ad una conclusione facilmente applicabile proprio all’approccio dell’artista greco. Pulini infatti afferma saggiamente che «[…] ogni copia, essendo eseguita in un tempo differente dall’originale, non può che essere un’opera a sé stante, diversa da quella, motivata da contesti e sentimenti che non potranno mai coincidere con quelli del primo sguardo. […] Neppure nel caso più intenzionale, come può essere quello di un falsario, è possibile spogliarsi totalmente dei condizionamenti culturali ed estetici della propria epoca, né è possibile cancellare in assoluto le tracce della propria individualità, sia nell’atto di imitare che in quello di copiare».


Così, tra le opere degli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta, gli anni cioè della Neometafisica, la mostra di palazzo Campana espone il Trovatore (fig.6,disegno del ’72 a carboncino, matita e acquerello), Il ritorno al castello (fig.9,olio su tela del ’69), Vita silente con busto di Minerva (fig.7,olio su tela del 1973), opere in cui l’artista enfatizza la sua libertà creativa attraverso un uso più vivace del colore – sono gli anni della pop-art e de Chirico non riesce a fare finta di niente, si lascia influenzare da quella brillantezza quasi patinata – e con una serenità che gli permette di prendere un sole e di trasformarlo in un enigmatico asterisco luminoso, fatto di lingue gialle, o alghe immobili, senza sfumature, (fig.10, Sole sul cavalletto, olio su tela, 1973), un sole agganciato o che aggancia altri elementi come la luna e il fuoco (fig.11, Offerta al sole, olio su tela, 1968).


I sentieri che si infilano tra le montagne e l’orizzonte sono fili attraversati dalla corrente elettrica, o da un’energia sconosciuta, e l’illogicità di certi reiterati accostamenti di figure, oggetti e contesti diventa espressione di un paesaggio mentale ricco di pensieri, ricordi e idee solo apparentemente vacui, dissonanti e inspiegabili.


De Chirico gioca con la pop-art, la riprende e la reinventa per «diventare figlio di se stesso» (Sgarbi), per dare nuova linfa ai soggetti di sempre. In Vita silente con busto di Minerva (fig.7) tornano i frutti sparpagliati su una piazza e i visi pietrificati già dipinti ne Il sogno trasformato del 1913 (fig.8). Nei gladiatori invece de Chirico vede espressa una brutalità quasi comica e commiserevole, su cui ha voglia di soffermarsi costantemente: lo fa in opere della fine degli anni Venti come in quelle più tarde. Ne sono un esempio i Quattro gladiatori nella stanza con vista del Colosseo del 1965 (fig.12), una delle opere più emblematiche della mostra, per via di quel carattere sospeso, insieme melancolico e ridicolo, che pervade la stanza abitata da questi quattro uomini, più simili a delle inesperte comparse che a valorosi lottatori. Una sorta di mascherata casalinga tra amici che possono vedere il Colosseo dalla finestra ma non possono entrarci dentro; l’ambientazione li rende nient’altro che disorientati modelli annoiati di un set fotografico perfuntorio, accentuando la muta finzione in cui sono stati inseriti.

Alla fine non si riesce a capire se il de Chirico della vecchiaia sia un uomo stanco o pacificato: Sgarbi lo vuole ringiovanito e abile a districarsi in un mondo di cui sapeva prendersi gioco con ironia acuta, ma c’è anche chi ricorda i suoi pomeriggi trascorsi a guardare la tv dei ragazzi, senza audio, a piazza di Spagna, evitando accuratamente di intrattenersi a parlare con chicchessia, riuscendo a «sopravvivere solo fingendo, solo indossando un’estrema maschera nella quale tutto era menzogna: l’elogio diventava scherno e la deferenza ribellione» (Baldacci).
Forse l’opera che si può prendere in esame per ricostruire la personalità dell’anziano de Chirico è Armonia della solitudine (immagine in copertina, olio su tela, 1976), che compare a inizio mostra. C’è tutto in questa tela: la solita stanza che emana energia metafisica, pareti vuote e silenziose eppure rivelatrici, proiettate verso tramonti placidi e dalle tinte quasi post-nucleari, i bianchi edifici a loggiato, sprazzi di rosso intenso, un sipario, montagne di objets trouvés con righe, squadre a cappello, squadre a due bracci accatastate e altri strumenti di misurazione, echi rinascimentali, assenza di esseri umani, sostituiti da composizioni strutturalmente ordinate e quasi animate. Senza sfumature e passaggi chiaroscurali netti, il turbamento scompare. Il titolo dell’opera descrive bene questo pittore co(s)mico: la sua, vogliamo credere, è una solitudine in compagnia di se stesso, non la solitudine di chi è in mezzo alla gente; è una solitudine che non ha bisogno degli altri per legittimarsi, è la solitudine di chi riflette, una militante introspezione che, nella sua apparente irragionevolezza, tutto abbraccia.
Lorenza Zampa
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