E’ postulando l’impossibile che l’artista si procura tutto il possibile.
J. W. Goethe
Palazzo Fortuny a Venezia, oltre 250 opere dall’antichità all’arte contemporanea, in una mostra dal titolo Futuruins visitabile sino al 24 marzo 2019. Dalle suggestioni del documento alle rielaborazioni del frammento come spunto per costruire il futuro. Il tempo che si dispiega in inciampi concreti, attraverso brandelli di architetture crollate, implose, degradate, ma anche tragedie naturali e politiche, dimenticanze e incurie. Disfacimenti e scheletri. Memento mori e Vanitas.

Le rovine ci parlano, letteralmente. Il loro è un linguaggio pulsante, resistente, a tratti sovrastante . In questo dialogo agitato, pretendono un nostro atto immaginativo. In fin dei conti siamo sempre prossimi a una cristallizzazione declinabile, un rischio e una possibilità, un peso e una spinta. Il nostro sguardo si trova in una condizione conativa di arricchimento esplorativo, ma soprattutto di sprofondamento onirico. In tal senso culmine centrale irradiante dell’intero progetto espositivo potrebbe essere l’incisione di Giorgio Ghisi del 1561, Il sogno di Raffaello. Qui tutto è in movimento. Rovina in alto, in basso, ciclicamente, ma sempre in ascensione o precipizio. La rovina ha un carattere verticale. Si resta in bilico, si ha necessità di sostegno. Altrimenti la contorsione è inevitabile. In definitiva, l’uomo è sempre costretto a ripiegarsi su se stesso, come afferma Bachelard.

La rovina è un’interruzione comunicativa che consente infiniti riverberi e ripartizioni. La grana del tempo si accende nel buio. Trasforma l’immobilismo in narrazione. Ci si può buttare col pensiero oltre il corpo, ma sempre prendendo piede dal corpo stesso. Nello sgretolarsi comunque il corpo è sempre adattamento. Frammento più valido dell’insieme. Duro e duraturo come pietra natale e tombale all’unisono. Un essere sempre ai bordi della durata. Nel vedere che pretende una distanza. Deposizione in dissolvenza tesa sotto i nostri occhi. Un altare negato da cui sono franate le divinità evirate. Crime and redemption di Fogarolli docet. Ostinazione della partizione e della sparizione.

Al secondo piano crepe convivono in dialoghi privati, mentre bulbi opachi penzolano privi di scintille. Baluginante biancore della ferita. Per nulla astratta. Spire del tempo, così in Carroll come in Ghisi. Persino il bianco non è rassicurante, ma dà vertigine per contraddizione con la sua stessa storia impressa. Macchia. I singoli lavori sembrano completamenti arbitrari dello spazio in cui siamo subito sperduti. L’eterno ritorno forse di ciò che rimane impigliato in quello che Augé chiamava tempo puro, ma anche tempo profondo, per citare il paleontologo Henry Gee. Una Medusa ostentata nella sua stessa pietrificazione con il suo serpeggiare di lingue di ruggine. Secoli e secoli, e solo nel presente accadono i fatti come giustamente appuntava J.L. Borges ne Il giardino dei sentieri che si biforcano.
Fabrizio Ajello
In copertina: Christian Fogarolli, Crime and redemption, 2018, foto di Licia Bianchi
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