Dal cinema delle origini ai film scandalo. Dalle provocazione d’autore all’horror più splatter: quelle volte che il cinema di evasione diventa più una “evasione dal cinema”. Esempi eccellenti di fughe di massa dalla proiezione per paura, disgusto e dissenso.
In quest’epoca dominata da Netflix e dal consumo digitale si parla molto di fuga dalle sale cinematografiche in senso figurato come riprova del presunto disamore nei confronti del grande schermo, ma quante volte è proprio questo a rigettare fisicamente i suoi spettatori costringendoli a scappare anzitempo un po’ per eccesso di provocazione ed un po’ per incomprensione?
In principio fu un treno lanciato in velocità verso gli spettatori seduti in trepidante attesa davanti allo schermo, la prima proiezione pubblica, quella de La grande rapina al treno ha coinciso infatti con la prima grande fuga dalla sala cinematografica. Ma è stata solo la prima di una lunga serie.
C’è chi l’abbandono lo fa per noia, chi se lo sceglie per professione, e questo sia dalla parte del critico o spettatore, sia da quella del regista. La fuga in grande stile fa sempre colore, fa sempre parlare, se annunciata fa, paradossalmente, “sbigliettare” di più, ed è comunque qualcosa di cui (s)parlare.
Tra gli autori che ormai sembra non abbiano altro interesse che sfruttare in modo spinto la propria inclinazione per l’irrappresentabile (e ciò che ne consegue) c’è il famigerato Lars Von Trier, che suscita nello spettatore, che sia critico, cinefilo o profano già solo per evocazione un’assunta urgenza di “messa al riparo” quasi per consuetudine prima ancora che per disgusto e contestazione, imbastendo un gioco delle parti che lo spinge di contro a un continuo rialzo dell’asticella per la produzione di opere sempre più costruite secondo l’assoluto principio dell’inammissibilità scenica e rappresentativa.
Una lunga e stimata carriera da autore controverso, quella di Von Trier, che si fa ormai vanto della capacità di suscitare turbamento, inquietudine e disprezzo senza pari. Se nel suo primo cinema l’orrore infatti poteva limitarsi a circoscritte, giustificate e significative sequenze, da Dogville in poi invece, pellicola ostica che ha visto l’abbandono sala alla prima anche da parte della sua assoluta protagonista Nicole Kidman, Von Trier ha vocato in modo totale la sua missione allo shock più esasperato. Da Melancholia ed Antichrist fino all’ultimo The House That Jack Built protagonista di una delle fughe più massicce che Cannes annoveri, ormai il suo sensazionalismo è sempre più additato come pretestuoso e provocatoriamente fine a se stesso in piena linea con il suo stesso mood che lo vede defenestrato dai contesti festivalieri una volta sì e l’altra pure tra proclami neonazisti e insulti plateali alla giuria in carica, persino tatuati sulla pelle. Più che una cifra stilistica ormai la repulsione e la volontà di svuotare la sala è regola del suo Dogma.
Ma non sempre le fughe possono ritenersi giustificate e indotte da un reale travalicare i limiti della decenza o del rappresentabile (sempre che questi si possano realmente definire e circoscrivere), come nel caso di quelle appena descritte.
Ho visto cose che voi umani non potete neanche immaginare, ho visto gente che abbandona in fretta e furia lo splendido Dogman di Matteo Garrone al termine dei primi ed unici 5 minuti di violenza (neanche estrema come i fatti avrebbero fatto presagire) in modo del tutto immotivato, forse perché intesi come il preludio di un escalation che non si risolverà mai in un culmine presunto. Stesso scenario per il recente remake del cult IT, con fughe di masse condite da lacrime e grida isteriche non come contestazione alle scarse qualità artistiche della pellicola, ma prima ancora che una delle sequenze topiche si realizzi sullo schermo a volersi sottrarre da un destino inevitabile (quando poi sarebbe bastato coprirsi per qualche istante gli occhi, come da clichè nella rappresentazione dell’orrorifico o infilarsi nella sala accanto del multiplex a gustarsi una commediola più leggera). Ma visti i molti episodi simili che si replicano quando la fama precede la pellicola stessa, va da se’ l’assunto che in questi casi l’attesa dell’orrore sia essa stessa l’orrore, perché nel diffondersi della leggenda che vuole qualcosa orribilmente disturbante vi è spesso la chiave del suo successo e di una reazione provocata strumentalmente. Viene da chiederselo anche nel caso emblematico di Blair witch project, con fuoriuscita di massa anche per la scelta obbligata, perché dettata dalla sua natura di mockumentary, dell’uso-abuso di una camera a mano che alla lunga suggerisce non pochi conati ed un certo mal di mare, ma che viene però abbandonato anche per la forte carica tensiva montata su dai molteplici teaser che ne hanno fatto un cult del genere pur senza evidente spargimento di sangue.
Invece è stato ritenuto fortemente sconvolgente e per questo ha subito la sorte dell’improvviso vuoto in sala il controverso Irreversible, considerato inguardabile per la sequenza di ultra violenza che vede protagonista Monica Bellucci, così come il criticatissimo Go go tales di Abel Ferrara, fischiato e lasciato anzitempo al proprio destino grazie al celebre inciso di Asia Argento alle prese con il famoso bacio ad un attore cane che in quel caso cane lo è davvero, un rottweiler per la precisione.
Il sesso estremo e la violenza perpetrata con l’ausilio del sesso oltre all’orrorifico sono infatti altre forti componenti discriminanti che spingono al dietrofront il pubblico cinematografico, combattuto tra il gusto del sordido e la spinta respingente che certe dinamiche estreme provocano. I due tabù del sesso e dell’horror spesso si intrecciano creando ibridi di disgusto e determinando proteste e ritirate, un caso su tutti ai danni del Kubrick di Arancia Meccanica per annoverare un capolavoro ormai del tutto accettato e sdoganato in ogni sua parte, ma che in tal senso ha molto sofferto, ma anche il bertolucciano Ultimo tango a Parigi, o il non proprio memorabile The brown bunny di Vincent Gallo che raccoglie frotte di disertori a causa di una esplicita scena di fellatio esibita, ostentata e poi tagliata in un secondo passaggio in sala (ripulisti che non riesce però a decretarne la fortuna neanche in seguito, perché di capolavoro proprio non si tratta).
Ma anche tenersi alla larga dall’esplicito e dal morboso non assicura un incollaggio a presa rapida de pubblico alle poltroncine di velluto. Il monumento Antonioni e la sua Avventura ne sono dimostrazione: abbandonata e fischiata per la presunta noia più che per lo scandalo, additata come borghese ed elitaria in un contesto sociale di viva contestazione di matrice proletaria e per questo boicottata dal pubblico, seppur subito recuperata dalla critica.
Destino simile per l’Albero della vita di Terrence Malick, reputato così verboso da meritare un esodo di soppiatto ed un’accusa di ostentazione intellettualoide senza appelli, ma anche Madre! di Aronofosky giudicato da molti tanto indigesto e kitsch al punto da non essere neanche degno di essere terminato.
E poi c’è il tabù della sacralità della morte a facilmente minare la permanenza in sala. C’è il corpo defunto che viene vilipeso come in Swiss Army Man di Daniel Kwan e Daniel Scheinert che spinge in modo fin troppo disinvolto oltre il politicamente corretto “l’interpretazione” del cadavere Daniel Radcliffe facendo scappare a gambe levate persino i più scafati nostalgici di Weekend con il morto.
Ed è una morte eccellente invece a sconvolgere per la crudezza e a registrare defezioni a proiezione andante causa malessere fisico e psicologico quella sacra rappresentata da Mel Gibson ne La Passione di Cristo, che prende alla lettera il tema e indugia in modo estremistico sulle torture legate alla crocifissione.
Il dolore fisico e la violazione del corpo sono anche la causa del dietro front del pubblico davanti alla scena di automutilazione di 127 Ore di Danny Boyle, al cannibalismo estremo dell’horror Raw, contrappasso all’ossessività del veganesimo dilagante, forse un po’ troppo decisa ed esasperata.
E poi ci sono quelle pellicole che smaccatamente e dichiaratamente puntano a suscitare il malessere in chi guarda sulla falsa riga della saga di Saw, o de Anche le colline hanno gli occhi, come il recente Hereditary, in Italia a metà luglio, che promette fuggifuggi garantiti per i più deboli di cuore con annesso rischio infarto per l’alto tasso di tensione e componenti splatter (tant’è che la produzione ha voluto testare l’andamento della frequenza cardiaca su un gruppo di spettatori in preview per usare i dati raccolti come lancio promozionale).
Ma l’esperienza cinematografica può essere così intensa di per sé da non necessitare forzature di sorta per coinvolgere e far evadere in senso metaforico e anche fisico chi vi si accosta. Un po’ come nel caso limite del taiwanese colto da emorragia causata dalla forte emozione provata dall’uomo durante la visione dell’innocuo Avatar (!) … la più estrema e melodrammatiche delle fughe dalla sala tra tutte quelle, anche rocambolesche, che la cronaca riporta.
Gabriella Cerbai
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