La mostra Huysmans, de Degas à Grünewald. Sous le regard de Francesco Vezzoli, curata da Stéphane Guégan ed André Guyaux, attraverso “lo sguardo” di Francesco Vezzoli , sarà visitabile sino a giorno 1 marzo del 2020 presso il Museo d’Orsay di Parigi. L’intero progetto artistico sarà in seguito esposto al Musées de la Ville di Strasburgo.
L’ingresso della mostra – Foto: Licia Bianchi
Un progetto ambizioso e rischioso, questo di Vezzoli, in linea con la tendenza di molte istituzioni internazionali di affidare curatele “soggettive” ad artisti di fama internazionale. Ben intesi, siamo al Musées d’Orsay et de l’Orangerie di Parigi e l’intero progetto è stato realizzato con il generoso sostegno di Bulgari e American Friends Musée d’Orsay. Insomma gli ingredienti per un’operazionea vario titolo interessante ci sarebbero tutti, ma le fragilità non mancano. Veniamo al dunque.
Copertina del libro A rebours di J.K. Huysmans
Partiamo dalla figura di Joris-Karl Huysmans, intelletuale e critico d’arte francese che influenzò il romanzo decadente alla fine dell’Ottocento, in grado di rivoluzionare le tematiche e lo stile narrativo con il suo visionario À rebours (Controcorrente) e il suo eccentrico punto di vista sul mondo dell’arte, dall’Impressionismo al Simbolismo. Amico di Zola e del noto ex prete e satanista Joseph-Antoine Boullan, l’autore francese riuscì ad incarnare la figura dell’esteta, diventando un punto di riferimento di scrittori e artisti poliedrici del calibro di Oscar Wilde e Gabriele D’Annunzio. Tutto parte proprio da lui, dal rappresentante del Decadentismo francese che l’artista Vezzoli emotivamente restituisce in un’ideale tripartizione cromatica degli spazi espositivi dedicati.
La prima sezione della mostra – Foto Fabrizio Ajello
Bianco neutro. Rosso vivo. Nero assoluto. Dal genio al Cristo superstar passando attraverso il capolavoro. Così si potrebbe riassumere la parabola dell’intero percorso espositivo, anche se non tutto funziona a dovere. Le prime due “stanze”, ad esempio, non colpiscono come avrebbero dovuto. Le opere, a volte non tutte qualitativamente omogenee, sono inoltre troppo sconnesse per riuscire a rendere il senso della rivoluzione di un certo tipo di tematica e di ricerca pittorica dell’epoca. Una scelta che non si riesce a comprendere appieno. Ad esempio l’accostamento dei lavori di Ferdinand Pelez, La Mort de Commode e la Naissance de Vénus di William Bouguereau non riesce, al di là del gioco di rimandi nascita/morte e la dimensione dei relativi dipinti, a rendere l’identità della prima sezione dell’intera esposizione. Inoltre il dipinto di Degas, Dans un café, dit aussi l’Absinthe, sarebbe stato molto più d’impatto in uno spazio dedicato, mentre nella sala, forse anche eccessivamente “vuota”, si perde in mezzo ad altri lavori non della stessa potenza.
La seconda parte del progetto espositivo, evidenziato dal colore cremisi, viceversa ha un’identità più complessa e coinvolgente che trascina lo spettatore in uno spazio convincente e dinamico. I lavori selezionati vengono esaltati e dialogano con una carta da parati su tonalità fuliggine che riproduce gli interni della spettacolare residenza/museo il Vittoriale degli Italiani di Gabriele D’Annunzio. Lusso. Eccesso. Barocchismi. Il display in questo caso riesce nel suo intento. L’intero ambiente connette l’esperienza simbolista con la tormentata ed eccentrica opera di Huysmans, culminante nella scultura (realizzata da Vezzoli, in collaborazione con Bulgari),di una tartaruga, il cui carapace viene arricchito da pietre preziose, proprio come accade nel romanzo dell’autore francese.
Dettaglio della mostra – Foto Licia Bianchi
L’artista Odilon Redon, qui, ovviamente, la fa da padrone. Les yeux clos (gli occhi chiusi) s’impone come cardine assoluto di una riluttanza assoluta contro la società borghese e i suoi squallidi e ripetitivi teatrini. Gli occhi chiusi sono spalancati sull’universo e oltre. Non necessita di sguardo questo sentire superiore. Non è soltanto questione di sguardi insomma. Ma di occhi spalancati ce ne sono eccome. Ci si sente osservati passeggiando per la sala che accoglie incisioni, testi autografi, fotografie, dipinti, sculture in un equilibio perfetto. Baudelaire, Verlaine, Moreau, lo stesso D’Annunzio aleggiano inquieti tra gli astanti.
In conclusione, il nero. Il trittico di riproduzioni. Forse l’atto più coraggioso ed interessante dell’intero progetto. Un’apparizione corale. Un Grünewald al cubo che piombato nell’ombra della sala pone l’accento sulla teatralità della crocifissione, ma soprattutto sul protagonismo supremo del Jesus Christ superstar. Si tratta di una sorprendente cappella sacra e profana allo stesso tempo. L’immagine stereofonica risultante ricorda i trittici di Francis Bacon o certi lavori di Rothko (la Rothko Chapel su tutti). Al culmine del pathos Vezzoli pone proprio il momento più delicato dell’intera esistenza (creativa) di Huysmans, ossia la sua scelta di fare offerta di sé a Dio, attraverso l’oblazione benedettina.
Dettaglio della mostra – Foto Licia Bianchi
La pecca che rompe talvolta l’incanto dell’intera operazione è la presenza di alcuni lavori dello stesso artista bresciano, che creano una sorta di corto circuito con l’intero impianto curatoriale, in una forse non del tutto riuscita, ma forse anche non necessaria, contaminazione tra il contemporaneo e il moderno.
Fabrizio Ajello
In copertina: dettaglio della seconda sezione della mostra – Foto Licia Bianchi