Interviste

Frammenti da un dialogo con Christian Caliandro – L’ARTE ROTTA

Prendendo spunto da alcune delle tematiche affrontate nel libro appena pubblicato L’ARTE ROTTA di Christian Caliandro, proponiamo una serie di frammenti salienti del dialogo con l’autore, in merito alla produzione/fruizione culturale contemporanea, alla likeability, al matriarcato, e al valore del frammento.

FA: Partirei proprio dalla struttura del tuo ultimo lavoro. Mi sembra di poter affermare che siamo in presenza di un testo molto sfaccettato e articolato rispetto alle tematiche affrontate, in grado di aprire continuamente riflessioni multiple e a volte contrastanti, nel senso di mettere il lettore in una posizione attiva, in una condizione di attenzione permanente.

CC: È proprio così. Si tratta di una caratteristica peculiare del mio modo di intendere la scrittura e di praticarla. Nel senso che non ho mai amato la saggistica, ma anche la narrativa, in cui l’autore sin dalle prime pagine ti svela più o meno dove ti condurrà e quali sono le vie che verranno battute. C’è chi preferisce questo modello, ma se ci pensi bene la realtà e la vita non funzionano in maniera ordinata e quindi preferisco un andamento diaristico, che mescola l’appunto alla riflessione, al frammento narrativo. Non è un caso che tutti gli scrittori citati nel testo utilizzano uno stile di scrittura di questo tipo, come: Henry Miller, Anaïs Nin, Jack Kerouac. Inoltre la ripetizione di certe frasi, o in alcuni casi di interi passaggi, così come la sospensione di alcuni concetti ripresi a distanza, fanno parte di una scelta che comporta un intreccio che permetta di accogliere sia citazioni di autori fondamentali rispetto allo sviluppo dei concetti affrontati, ma anche frammenti di conversazioni intrattenute con i miei studenti e con artisti con cui ho collaborato a vari progetti. Tutto questo non è soltanto un metodo o uno stile ma ha proprio direttamente a che fare con quanto viene affrontato concretamente nel libro.

FA: Quindi il tuo lavoro funziona come una sorta di apertura-partitura, di sperimentazione di un linguaggio nuovo, uno spazio di confronto senza affermazioni perentorie ma con tanti interrogativi.

Roxy in the Box, intervento da Business Ventures, La seconda notte di quiete (2017),ArtVerona, quartiere di Veronetta

CC: L’ARTE ROTTA, se ci pensi, si riferisce anche a ciò che Kerouac affermava in merito al termine beat che aveva più valenze, più strati. Da una parte era legato al battito, alla radice musicale, dall’altro significa anche beaten, ossia battuto, ma un abbattimento vitale, e ancora il riferimento era la radice di beatific, quindi un riferimento alla beatitudine. In tal senso la ricerca di un linguaggio nuovo per affrontare quello che sta accadendo nel mondo dell’arte ma non solo, è necessario. A tutti gli effetti L’ARTE ROTTA è un libro di critica d’arte ma ingloba altri generi letterari, come l’autofiction, la cronaca, il memoir. D’altronde uno degli autori che hanno contribuito alla mia formazione è proprio Roberto Longhi, che oltre ad essere un critico d’arte era anche uno dei grandi maestri della letteratura italiana. Ma questo vale anche per i suoi allievi, Francesco Arcangeli e Carla Lonzi. Aggiungo che la questione degli interrogativi, del percorso rizomatico sono centrali, perché l’ordine predefinito e rigoroso, come ad esempio l’abstract è un tentativo dimostrativo di un percorso lineare che è un po’ una finzione, un’illusione. Scrivendo un testo, il pensiero prende anche altre strade e si ritorna su un argomento e magari lo si rivede e corregge, o lo si affronta da punti di vista diversi, oppure capita che ci si contraddica, perché no. Ovviamente nel senso di cambiare posizione, un po’ come funziona il nostro cervello.

FA: Aggiungerei che nel tuo testo le riflessioni indagano e coinvolgono inevitabilmente anche l’attualità, la vita quotidiana, il coinvolgimento da prosumer di ognuno di noi nella produzione/fruizione di immaginari.

CC: I fenomeni che sono strettamente connessi a vari aspetti della vita quotidiana sono presenti perché è inevitabile, dal momento che le opere in tutte le epoche funzionano se realmente sono delle forme esistenziali, delle forme biologiche, come dei modelli della vita di tutti i giorni. E nell’arte poi si riflettono molteplici fenomeni, come ad esempio la likeability, che ci riguardano e che si riflettono molto spesso a loro volta su scenari drammatici, come purtroppo accade proprio nel nostro tempo presente.

FA: Un altro tratto distintivo è la presenza degli scambi email con diversi/e artisti/e. Questa scelta accentua il carattere fortemente dialogico e aperto del tuo modus operandi.

CC: Immettere in alcuni punti le voci degli altri è stato un processo spontaneo e necessario, trattandosi sempre di un lavoro narrativo-dialogico. Questo libro emerge infatti, proprio da una miriade di confronti, discussioni, progetti condivisi e intrecciati negli ultimi cinque anni. Spesso l’email era l’origine dello sviluppo del pensiero successivo. È una sorta di prosecuzione ed evoluzione esplicitata, cosa che non sempre gli scrittori rendono visibile. E in tal senso è anche importante che l’opera sia un’infrastruttura di relazioni e di rapporti umani. È un po’ come mostrare il making of di un’opera. Ma ovviamente tutto può intervenire nella stesura di un testo, certe riflessioni su film o serie che ti hanno colpito particolarmente, libri letti recentemente, un certo tipo di musica.

FA: Ecco, per quanto concerne la musica mi piacerebbe approfondire meglio il tuo rapporto con questo ambito molto presente nei tuoi testi, non solo in quanto citazione, ma anche e soprattutto come modello di riferimento e a volte pietra angolare e di confronto con le pratiche artistiche e la letteratura.

CC: Il rapporto con la musica è fondamentale, ma non intesa come colonna sonora, bensì come modello di riferimento rispetto a certe opere e creazioni artistiche. Ci sono gruppi musicali che sono arrivati a produrre album, sorpassando certe ricerche artistiche contemporaneamente. Nella mia scrittura si ripercuotono inevitabilmente certi ascolti e sperimentazioni sonore. Mi riferisco ad esempio ai Planning for Burial, Brian Eno o ai Nine Inch Nails. Proprio Trent Reznor, fondatore e unico membro fisso dei NIN, è riuscito a mettere a punto nel tempo un processo creativo basato sull’analisi e sullo sviluppo del frammento. Dalla sperimentazione del “progetto” Ghosts I-IV (2008), invece di realizzare canzoni dallo sviluppo canonico, è riuscito a lavorare sul frammento, mantenendolo grezzo. Questo rende sempre più evidente il processo di lavorazione ed è un po’ quello che cerco di realizzare nel mio modello compositivo di scrittura. Per non parlare del fatto che sia Trent Reznor che Brian Eno, sono gli autori che meglio di altri hanno composto musica che permette una concentrazione assoluta.

Serena Fineschi, About Decadence (Trash Series), 2019, chewing-gum, saliva_photo Elena Foresto

FA: Tornando ai temi che affronti nel libro, troviamo anche una parte considerevole dedicata al periodo del lockdown, della pandemia.

CC: Si tratta della parte che si trova al centro del libro, prima del capitolo intitolato proprio LARTE ROTTA, ed in effetti questa posizione non è casuale. È evidente che sia stato l’arrivo del virus ad amplificare ciò che prima si muoveva sottotraccia, nelle nostre vite. Anche nel mondo dell’arte, la pandemia ha reso evidenti fenomeni e situazioni che si preferiva non vedere. Soltanto che adesso bisognerà farci i conti e alcuni artisti, curatori e intellettuali stanno proprio andando in questa direzione.

FA: In tal senso che espressione artistica reputi interessante in questi tempi drammatici e appesantiti da eventi epocali come quelli che stiamo attraversando?

CC: M’interessa un’arte effimera, non spettacolare, un’arte strettamente in relazione con questa dimensione intima, fragile, precaria, quasi domestica, fatta quasi di niente, ma un niente che riesca a smontare il modello creativo che si fonda sull’ego dell’artista, che va a scapito anche dell’opera stessa. Penso sia una questione di attitudine più che di stile. Una tendenza alla smarginatura, per dirla alla Elena Ferrante.

FA:  Qui il riferimento inevitabile è quello ad un altro capitolo (e tema fondante), anche se ne troviamo traccia in tutto il libro, ossia quello sul matriarcato.

CC: Devo moltissimo all’esplorazione del pensiero femminile e del femminismo. Alcune scrittrici come Elena Ferrante, Anaïs Nin, Mary Shelley, Donna Haraway, sono state molto importanti per me in quanto persona e ovviamente anche per la realizzazione di questo libro. E se ci pensi bene, molte di queste esperienze letterarie sono diaristiche, perché rispetto agli uomini, le scrittrici sono state sempre più in grado di mettersi totalmente a nudo. Lo scrittore è come se assumesse sempre un po’ una posa, magari a volte risulta anche ridicola, ma è un po’ come se dovesse proprio mettersi sul piedistallo. Questo capita anche nel mondo dell’arte. Più un artista vuole realizzare un’opera che s’impone allo spettatore, meno potente risulta. Viceversa più un artista si libera dalla realizzazione di un’opera che giganteggia in chiave egocentrica, creando un’arte sfrangiata, altro termine che amo molto e reputo valido in tal senso, più il lavoro finale risulta efficace. Il display e il dispositivo della mostra inoltre hanno una responsabilità non da poco in questa tensione. Infatti anche l’opera più potente e riuscita, se viene esibita in uno spazio espositivo, si depotenzia, come se la galleria, il museo fossero diventati spazi ostili.

FA: Mentre parlavi di questo fenomeno, mi veniva alla mente la tecnica della regressione dello scrittore siciliano Giovanni Verga, che cercava di scomparire come autore dietro i suoi personaggi, lasciando che parlassero direttamente loro, evitando di puntare l’attenzione su di sé. Una tecnica che sposta l’attenzione sulla materia narrata piuttosto che sullo scrittore. L’artificio sembra voler svelare e mettere il dito nella piaga, mentre la verità fulmina chi osa guardarla in faccia, come affermava Ennio Flaiano.

CC: Ma infatti il realismo è al centro della questione, anche se chiaramente epoca dopo epoca l’approccio, i modelli e i risultati cambiano inevitabilmente. Rossellini operava così. La volontà di mescolare attori professionisti con attori presi dalla strada, il fatto di girare per strada, sono tecniche e strategie che vanno in quella direzione, ossia non tanto di annullare l’artificio, ma di raggiungere un piano di sincerità. David Foster Wallace immaginava che la rivoluzione del futuro in campo letterario, ma vale anche nel campo artistico se vuoi, sarebbe venuta non da autori ipersofisticati, ma da autori naïf in grado di portare questa forma di sincerità dentro la narrativa. Quindi oggi è più che mai importante assumere un’attitudine differente verso la produzione culturale, ma anche e soprattutto nei confronti della vita e della relazione col prossimo e con il mondo in cui viviamo.

Fabrizio Ajello

In copertina: Emanuela Barilozzi Caruso, 13 marzo, h. 9.30, Alessandra-Stefania_Senzazioni (2021), Palermo

About the author

Fabrizio Ajello

Fabrizio Ajello si è laureato presso la Facoltà di Lettere e Filosofia di Palermo, con una tesi in Storia dell’Arte Contemporanea.
Ha collaborato in passato attivamente con le riviste Music Line e Succoacido.net.
Dal 2005 ha lavorato al progetto di arte pubblica, Progetto Isole.
Nel 2008 fonda, insieme all'artista Christian Costa, il progetto di arte pubblica Spazi Docili, basato a Firenze, che in questi anni ha prodotto indagini sul territorio, interventi, workshop e talk presso istituzioni pubbliche e private, mostre e residenze artistiche.
Ha inoltre esposto in gallerie e musei italiani e internazionali e preso parte a diversi eventi quali: Berlin Biennale 7, Break 2.4 Festival a Ljubljana, in Slovenia, Synthetic Zero al BronxArtSpace di New York, Moving Sculpture In The Public Realm a Cardiff, Hosted in Athens ad Atene, The Entropy of Art a Wroclaw, in Polonia.
Insegna materie letterarie presso il Liceo Artistico di Porta Romana a Firenze.