Arte e Fotografia

E’ Jan Fabre il Cavaliere della Notte

La personale di Jan Fabre. The knight of the night alla Galleria Il Ponte di Firenze riunisce una serie di opere realizzate dall’artista belga (Anversa 1958) in diversi momenti della sua carriera, tra il 1997 e il 2013, che insieme intrecciano un’unica narrazione, ispirata al genere letterario del romanzo cavalleresco, uno dei temi cardine dell’intera produzione dell’artista.

Skull with magpie, 2001

La mostra, curata da Bruno Corà, si snoda tra armature e teschi umani rivestiti da scarabei dalla corazza cangiante. Negli spazi della galleria fiorentina, che con questa mostra conferma un programma davvero sorprendente e dalle scelte coraggiose, l’artista diventa eroe tragico cavalleresco. Emblema di questa metamorfosi è il film Lancelot del 2004, nel quale Fabre, indossando una pesante armatura, evoca la battaglia dell’eroe contro se stesso. Il cortometraggio rappresenta il fulcro narrativo dell’intera esposizione, in cui scarabei e cavalieri, accomunati dall’armatura, rappresentano la vita dell’uomo. Nella mostra sono presenti inoltre anche gli altri temi chiave della ricerca interdisciplinare dell’artista di Anversa: la teatralità, la metamorfosi, l’interesse al limite dello scientifico per il corpo umano, per la sua fragilità e le sue possibili difese, ma anche la passione per l’entomologia, a cui si dedicò sin dagli esordi, quando iniziò ad analizzare insetti e altri animali, a dissezionare i loro corpi e trasformarli in nuove creature, influenzato dalle ricerche del suo avo Jean-Henry Fabre, considerato il padre dell’entomologia, vissuto tra il 1823 e il 1915.

Salvator Mundi, 1998

Definito dall’attuale direttore del GAMeC di Bergamo, Giacinto di Pietrantonio, come “…un Leonardo contemporaneo vicino però per sensibilità e spregiudicatezza immaginativa alla fantasia surreale e brulicante di Bosch e al realismo allucinatorio di Jan Van Eyck”, le sue opere invitano lo spettatore alla riflessione, e alla metamorfosi, ricordando all’uomo la sua natura, il rapporto con la morte, la follia e l’espiazione, temi cari da sempre alla narrazione artistica fiamminga.

Fabre rinnova con questa mostra alla Galleria Il Ponte il suo legame con l’Italia, quell’età dell’oro che unì proprio Firenze ai fiamminghi all’epoca delle grandi corti.  E’ del 1979 infatti la sua prima presenza a Firenze con la collettiva a Palazzo Rucellai Arte fiamminga contemporanea, durante la preparazione della quale Fabre visitò ripetutamente la Galleria degli Uffizi, rimanendone profondamente emozionato e impressionato. Ed è proprio il grande potere della bellezza che Fabre studia e approfondisce in alcuni capolavori degli Uffizi, che diventa nodo centrale di tutto il suo lavoro, a cui ogni sua opera aspira. L’artista diventa una sorta di “cavaliere/guerriero della bellezza”, con la quale esorcizza l’universo, ma soprattutto la vita e la morte. Ecco che entra in gioco l’armatura, che protegge le parti più sensibili e vulnerabili dell’uomo, la sua pelle.

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Secondo Fabre gli italiani hanno innato il senso della bellezza, la sensibilità spiccata per il dettaglio, proprio come nei primitivi fiamminghi, che pongono l’uomo al centro dell’universo. Nel suo lavoro si rintraccia anche la tradizione rinascimentale dell’uomo-universale, che vuole dominare il mondo attraverso la ragione. Questo suo legame con Firenze, il controverso artista belga, spesso contestato per la forza di alcune sue opere, lo ha voluto ribadire con la donazione nel 2012 alla Galleria degli Uffizi di due suoi autoritratti in bronzo, facenti parte di una serie di 18, realizzati nel 2010 chiamati Capitoli.

E’ nel Salvator Mundi, in cui si concretizza l’ideale cavalleresco dell’artista che da sempre è affascinato dal mondo degli insetti, soprattutto dagli scarabei, l’insetto re dell’antico Egitto, in cui l’armatura umana e le corazze sono accomunate. I teschi umani di questi suoi lavori, i cui tratti somatici sono costruiti anch’essi da una superficie di scarabei, afferrano la preda, la frusta, o sono penetrati dalle chiavi dell’inferno, sono dunque la materializzazione dei sogni e degli incubi, che aleggiano all’interno di una fiaba notturna.

Pantser breast green, 1997

In questa mostra si rivela pienamente l’immaginario dell’artista, che fa entrare il proprio corpo nell’opera e lo pone a confronto con quello degli altri, nel tentativo di metabolizzarli, modificandosi e liberandosi di sensazioni ed emozioni ormai note, alla ricerca di un corpo nuovo. Le opere intessono un dialogo con l’osservatore, che non deve limitarsi a contemplare, ma è chiamato a superare i propri limiti mentali e fisici, per entrare dentro il corpo dell’opera. In altre parole, lo spettatore è invitato dall’artista a divenire il soggetto principale di una metamorfosi. Al fine di dimostrare le infinite potenzialità dell’individuo, è sempre la metamorfosi, quella dell’eroe tragico cavalleresco, che Fabre si prefigge di indagare: ovvero la dimensione indefinita di cambiamento permanente vissuto dall’uomo.

L’artista fiammingo, ormai tra i più noti e famosi sulla scena internazionale, ha già raggiunto grandi primati, tra i quali quello di aver esposto i suoi lavori in importanti istituzioni e musei in tutto il mondo, come il Louvre, dove nel 2008 ha avuto l’onore di essere il primo artista vivente a esporre. Nel 2016 poi l’Hermitage di San Pietroburgo ospiterà l’artista per un’importante esposizione, la prima del museo russo dedicata a un autore contemporaneo. Di lui vorrei inoltre segnalare a Bruxelles, nel pomposo edificio ottocentesco di Palazzo Reale, The heaven of delight, il soffitto e il grande lampadario della Sala degli Specchi, interamente rivestiti con un milione e mezzo di carapaci di scarabei verdi, incollando una a una le piccole corazze degli insetti.

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Un comitato, presieduto dalla Regina Paola, nel 2002 ha voluto riportare l’arte contemporanea a palazzo, dove l’ultima opera d’arte ammessa, più di cent’anni fa, fu una scultura di Auguste Rodin. La luce che entra dalle finestre e colpisce le corazze degli insetti, provoca riflessi che vanno dal verde al blu scuro, dando alla sala, quasi un’aura silvestre, in un’atmosfera sospesa da favola gotica. Di certo un’opera che non vi lascerà indifferenti, per la mescolanza di tradizione e splendente modernità, di audacia e trasgressione, di follia e razionalità. Non è dunque questo che si richiede a un artista? L’essere un po’ dio, un po’ demiurgo, colui che sia capace di creare esseri ibridi che ci difendano e che ci aiutino a superare i limiti umani e a sopportare e a esorcizzare la paure del mondo…

Cecilia Barbieri

About the author

Cecilia Barbieri

Nata a Firenze, dove vive e lavora, ha conseguito la Laurea in Storia dell’Arte all’Università di Firenze. Ha lavorato nell’organizzazione di mostre ed eventi e ha curato nel corso degli anni diverse pubblicazioni di Storia dell’Arte e di Storia del territorio. Giornalista pubblicista collabora costantemente come freelance con diverse testate di settore.

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