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Di natura, di felicità e disincanto | Una conversazione con U M G

Cantautore dalla scrittura trasversale e sempre riconoscibile, Umberto Maria Giardini è considerato uno dei padri fondatori del movimento alternativo italiano degli ultimi vent’anni. Più noto al grosso pubblico con lo pseudonimo di Moltheni, negli album della sua carriera ha toccato numerose sponde del genere rock, rappresentando un riferimento importante anche per i musicisti che negli anni lo hanno posticipato. Scrittore sopraffino dal carattere schivo, soprattutto verso quel sistema mainstream poco calzante al suo modus operandi, Umberto Maria Giardini è sicuramente sinonimo di spiccata eleganza e qualità, accoppiate ad una attitudine espressivo-comunicativa non comune.

Partirei dalla questione dell’identità. Al di là dei vari progetti musicali che ti vedono coinvolto, UMG e Moltheni, sono a mio avviso i più intimi. Sicuramente incarnano una qualità bipolare di reinventarsi, in parte specularmente. Due strade parallele, coincidenti, divergenti, riconcilianti. Chi ti ha seguito negli anni ha potuto percepire probabilmente questo “circuito affascinante”. Che rapporto lega Moltheni e UMG e dove si spinge il loro dialogo negli anni a venire? Al di là di previsioni ipotetiche, ritengo che tu riesca ad intravedere una traiettoria.

UMG – Nonostante i due progetti si siano dati il cambio tra il 2010 e il 2012, quindi in un lasso di tempo non brevissimo, hanno molto e contemporaneamente poco in comune. La scrittura probabilmente è l’unico denominatore comune che li ha fatti tenere per mano in questi anni, ma l’intenzione e un certo significato più profondo legato a una visione oggettiva della realtà, sono cambiati decisamente. La mia vita è cambiata, il mondo è cambiato e con esso anche ciò che ho prodotto nel suono e nelle mie visioni. La qualità, sia da un punto di vista tecnico che qualitativo con UMG è stata di gran lunga più superiore. L’ascoltatore medio non riesce quasi mai a percepire i dettagli nonchè le differenze legate alla qualità, quasi sempre ci si concentra su qualcosa che ha segnato il nostro tempo specie se legato alla giovinezza, ma la realtà quasi sempre è diversa con una fisionomia più nitida. Le traiettorie e i percorsi che si delineano durante il trascorrere del tempo, sono sempre legittimati da ciò che in questo tempo accade. Io non ho obiettivi artistici.

Marcel Duchamp – Autour d’une table, 1917

 

In diversi tuoi lavori, in alcuni brani in particolare emerge una natura a tratti aspra, elettrica, notturna e in altri momenti splendente e rigogliosa, una sorta di  “madre-matrigna”, una forma di sacro ancestrale e assoluto. Penso ad alcuni videoclip, alla copertina di Protestantesima e anche a brani come Anni Luce, Nella mia bocca, Vita Rubina, Saga. Ad ascoltare ad esempio questi ultimi mi sono sempre apparse, come epifanie, le impressionanti tele di Anselm Kiefer, nelle quali in effetti, si viene sopraffatti, inghiottiti, o con cui comunque bisogna fare i conti, per la loro dimensione, ma anche e soprattutto per la loro drammaticità. In tal senso la natura, intesa come ambiente selvaggio, è un serbatoio ideale ed emotivo, un rifugio, un tempo distaccato dalla frenesia della vita, una riscoperta delle fragilità e della meraviglia?

UMG – La natura è madre e matrigna, e nel mio personale immaginario è come per chi crede, Dio. La vita è di fatto dolore, poiché la felicità si manifesta solamente in brevi attimi, che bisogna cogliere e farne tesoro. Il resto (la nostra epoca ne è lo specchio) è uno scorrere di episodi e accadimenti che la modificano, condizionano e a volte cambiano, ma di fatto la rendono poco limpida. Ognuno di noi può essere felice, ma la felicità sarà sempre figlia illegittima della vita, a sua volta figlia legittima della natura. Lo scopo dell’essere umano dovrebbe essere quello di materializzare i concetti di amorevolezza e compassione, attraverso gli insegnamenti che la natura (severa e imparziale) regala, ma non è così. Nei miei testi come nella realtà l’essere umano prevale solo apparentemente, dando benzina all’apparenza. La natura decide.

Anselm Kiefer – Walhalla, 2016

Mi sembra che il tuo processo di composizione lirica, riguardo ai testi, funzioni per frammenti visivi, sospensioni temporali (penso alle strategie delle fiabe) e scostamenti tra significanti e significati che vengono spinti altrove, attraverso l’accostamento iperbolico e a volte contrastante di termini molto distanti. Alcuni titoli di tuoi album in tal senso sono indicativi.

Lo scrittore W. Burroughs affermò in un’intervista: “Come sottolinea Korzybski in Science and Sanity, nelle lingue occidentali sono state costruite falsificazioni che impongono un modo di pensare fuorviante. Una di queste è l’é dell’identificazione. Il verbo essere, che rende la parola equivalente all’oggetto o al processo a cui la parola si riferisce, è fonte di una confusione che va dai disordini del pensiero e dei ragionamenti puramente verbali fino alla follia conclamata.”. Come funziona e come si è sviluppato negli anni il tuo personalissimo e raffinato processo (anti)“narrativo” che risulta sempre allo stesso tempo immediato e per certi versi ambiguo?

UMG – L’ambiguità e la contraddizione sono stati da sempre elementi determinanti per il mio modo di pensare e di conseguenza di scrivere. Nonostante non sia mai stato un accanito lettore, i libri sono per me il punto di partenza per scrivere qualsiasi cosa, ancor di più se legati ad un immaginario che si innesca grazie alle sensazioni scaturite dalla poesia e dal cinema. La mia innata diffidenza verso il concetto di “felicità” mi ha paradossalmente dato una grossa mano, aiutandomi negli anni della mia adolescenza e poi maturità, a fidarmi poco di ciò che sembra. Non sono mai stato un pessimista bensì un attento osservatore della realtà e delle conseguenze che essa puntualmente materializza  poi nella nostra vita. Quindi l’immediatezza nel non girare attorno al problema ma mirarlo, puntarlo e affrontarlo, è per me, fonte di serenità e stimolo. Anche nel processo compositivo dei miei testi.

Daniel Richter – Un fiore in fiamme, 2012

Lo scrittore E. M. Cioran in un suo celebre aforisma afferma: “in un mondo senza malinconia gli usignoli si metterebbero a ruttare.” La straziante malinconia di alcuni dei tuoi brani rapisce senza lasciare fiato, penso a Saga, Suprema, Verano. Ascoltandoli mi capita sempre di pensare a Maria Callas. Non si tratta di un paragone ma, non credo sia un azzardo questa mia percezione. Puoi aiutarmi in tal senso nel ricostruire certe radici della tua ispirazione?

UMGMaria Callas, come altri personaggi del mondo dell’arte che fu, è per me qualcosa che non si può descrivere a parole. I sentimenti legati alla malinconia e i tentativi di ricostruzione della mia coscienza personale, fanno parte di un percorso che passano inequivocabilmente attraverso la drammaticità della vita. Tuttavia i paragoni tra forti personalità risultano spesso devianti. Io sono solo un uomo nato negli anni sessanta, che ha vissuto intensamente gli anni della sua vita, tentando ogni giorno di tradurli per comprenderli meglio e per farmi comprendere meglio da chi vuole bene.

La soprano e attrice Maria Callas

La memoria è un altro “tasto dolente”, ricostruzione e annegamento. In Vita rubina il passato è riproposto, rivissuto, fermato per un attimo, per essere poi perduto in un diluirsi di ieri in oggi e nelle cicatrici di momenti emotivamente intensi, proprio come il colore che evochi nel titolo. Nei tuoi brani, si percepisce il carico di una storia singolare che, quasi per magia, si trasforma in storia collettiva. In fin dei conti possiamo affermare che in parte il passato è il risultato delle mezze verità dei viventi. Quanto utilizziamo il tempo passato e quanto invece ci manipola?

UMG – Il passato non condiziona la vita degli stolti. Coloro che non hanno memoria storica, anche e semplicemente riferita ai propri antenati, non avranno mai una visione del futuro adeguata nè programmatica. Il passato è parte di noi, il futuro invece è ipotetico, anche se egoisticamente ammiccante, specie oggi in cui tutto fa vomitare. Quando invece il passato manipola e svia la concentrazione su ciò che ci attende, esso comporta qualcosa che non so spiegare ma che non mi piace. L’armonia in ciò che è stato e in ciò che avverrà ha un legame di fatto reale; occorre preservare l’uno e preparare l’altro, solo così si potrà dare un senso ad ogni cosa, oggi che ogni cosa ne ha sempre meno.

Fabrizio Ajello 

About the author

Fabrizio Ajello

Fabrizio Ajello si è laureato presso la Facoltà di Lettere e Filosofia di Palermo, con una tesi in Storia dell’Arte Contemporanea.
Ha collaborato in passato attivamente con le riviste Music Line e Succoacido.net.
Dal 2005 ha lavorato al progetto di arte pubblica, Progetto Isole.
Nel 2008 fonda, insieme all'artista Christian Costa, il progetto di arte pubblica Spazi Docili, basato a Firenze, che in questi anni ha prodotto indagini sul territorio, interventi, workshop e talk presso istituzioni pubbliche e private, mostre e residenze artistiche.
Ha inoltre esposto in gallerie e musei italiani e internazionali e preso parte a diversi eventi quali: Berlin Biennale 7, Break 2.4 Festival a Ljubljana, in Slovenia, Synthetic Zero al BronxArtSpace di New York, Moving Sculpture In The Public Realm a Cardiff, Hosted in Athens ad Atene, The Entropy of Art a Wroclaw, in Polonia.
Insegna materie letterarie presso il Liceo Artistico di Porta Romana a Firenze.

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