Venerdì 11 marzo siamo stati al Teatro Astra di Vicenza per lo spettacolo Marzo della compagnia Dewey Dell, rappresentato all’interno della stagione serale “Terrestri 15/16”, rassegna che ospita alcuni tra i nomi più interessanti della scena contemporanea nazionale.
Arrivati con la speranza di trovare tra il pubblico qualche coraggioso cosplayer (n.d.r.: coloro che indossano il costume di un personaggio, solitamente proveniente dal mondo dei manga o dei fumetti in generale, e ne interpretano il modo di agire), restiamo un po’ delusi per l’assenza di guerriere Sailor o protagonisti di One Piece: i mondi del teatro contemporaneo e del cosplay stentano un po’ a incontrarsi, nonostante l’evento fosse parte del festival “Haru no Kaze – Vento di primavera – il Giappone a Vicenza” e agli avventori in costume fosse riservato un ingresso scontato.
Dopo la replica, una stremata (i Dewey Dell sono impegnati in una lunga tournée che li ha portati fino a Mosca) ma entusiasta Teodora Castellucci (danzatrice, coreografa e co-fondatrice della giovane compagnia multidisciplinare cesenate) ci racconta qualcosa sulla genesi dello spettacolo: dalla decisione di compiere, per la prima volta dall’inizio della loro attività, un’operazione puramente narrativa e raccontare una storia d’amore, al desiderio di collaborare con il regista Kuro Tanino dopo la visione di un suo spettacolo, nonostante l’apparente divergenza fra i linguaggi scenici; dalla fascinazione mai sopita per il mondo dei cartoons alla scelta di affidare il design dei costumi all’artista visivo e mangaka Yuichi Yokoyama.
Chi decide di mettere in scena una drammaturgia originale nata da suggestioni lontane dalla propria cifra stilistica si trova davanti a due possibilità: studiare la materia nuova nel profondo oppure osservare il fenomeno restandone fuori. O, ancora, una terza via: cogliere i cardini di un’estetica differente e provare poi a tracciare un perimetro, riempendolo con i propri colori e le proprie sfumature, magari ibride, magari influenzate da stimoli molteplici.
I Dewey Dell compiono esattamente questa operazione: rinunciano a un’immersione profonda in un immaginario altro, raccogliendo elementi gestuali del teatro nō e del kabuki e facendone proprie le forme.
E, così facendo, raggiungono, attraverso la pura forma danzata, quella sacralità e quel senso di eroico che sia il teatro tradizionale nipponico che l’immaginario manga possiedono.
La ricerca del gruppo non è tanto sul manga e la sua poetica, dunque, ma sulla forma, lo stile, la corporeità da ricomporre su figure stilizzate, meravigliosamente bidimensionali.
Lo stesso sound design tradisce un’ispirazione al nō: ritmi cadenzati legati all’azione secca, mentre un sapiente uso delle luci restituisce il formato televisivo.
Ciò che ci separa dal mondo dei manga e degli anime è un sistema di simboli e metafore che ben sintetizzano le differenze tra un occidente omologato e colonizzato, e il Giappone, universo culturale a se stante.
La compagnia, a tratti, colma questa distanza, sorprendendoci con la bellezza della semplicità: i dialoghi, poetici e iper-sintetici, sanno di anime e ne conservano la tragicità priva di fronzoli.
La sensazione è che la cultura pop giapponese (dai Power Rangers a Inuyasha) si sia impressa inevitabilmente sugli autori: la forma si è tramutata, conservando però le tracce di movimenti esasperati, simbolici, a tratti grotteschi, sacri.
Null’altro conta se non il salvataggio; null’altro c’è, in questo universo post-atomico scelto come ambientazione, che non rimandi all’epicità della guerra e dell’amore, del simbolico sbocciare della primavera del mese di marzo.
I Dewey Dell superano la figura umana, mantenendo l’umano struggimento e l’umano sguardo delle maschere e delle figure sceniche meravigliosamente disegnate, rivelando l’eredità dei film d’animazione più vicini all’immaginario europeo, come i robot vagamente antropomorfi di Wall-e .
Commuovono e regalano una visione poetica cogliendo, forse non del tutto consapevolmente, l’anima di un’arte giapponese in cui convivono un’estrema modernità e un attaccamento alla tradizione, un’estetica post-umana e una tragicità ancestrale.
Primavera Contu
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