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Da MySpace a TikTok | Vita, morte, miracoli dei social network

Le mirabolanti parabole di chat e social network, piattaforme che dagli anni Duemila hanno ricoperto un posto sempre più rilevante nelle nostre vite. Un racconto dalle origini fino a oggi a cura di Patrizia Genovesi che, lavorando per IBM negli anni degli albori tecnologici, ha iniziato a utilizzare le primissime chat c6 e ICQ come assistenza remota ai clienti prima che diventassero a tutti gli effetti le nuove piazze virtuali. 

Per la mia generazione il Social Network preferito era la piazzaLa piazza era la chiacchiera leggera, il gossip di quartiere, lo sfogo dell’amico, il malumore politico o sociale, il progetto per un mondo migliore. Socializzare era una scelta, dovevi uscire di casa o prenderti un tempo adeguato per una telefonata. Socializzare era un impegno. Era un’esperienza che lasciava un segno, perché ogni incontro era condizionato dalla pioggia o dal freddo, dal sole o dalla musica, da un’aroma o da un umore. Si fissava nei tuoi occhi, nella tua pelle e nella tua memoria. Ho vissuto l’epoca digitale pienamente, entrando a 20 anni nel mondo IBM e seguendo da vicino la nascita delle prime chat a livello sperimentale, che venivano usate da noi principalmente per l’assistenza remota ai clienti, e che sono poi diventate uno strumento innovativo ed efficace per “chiacchierare” senza l’impegno di doversi spostare di casa.

Le chat come c6 o ICQ erano intuitive. Niente immagini, a meno che non si decidesse esplicitamente di inviarne in allegato. Lo scopo era entrare in relazione con una persona, raccontarsi, ascoltare.

Come sappiamo le scoperte tecnologiche aprono nuove possibilità e favoriscono la nascita di nuove idee. 

La rete diventa dunque sempre più veloce, il sistema di connessioni sempre più sofisticato. E’ il momento del boom dei siti internet, nuove vetrine per far conoscere la propria attività. Nascono i primi blog: siti semplici da gestire, alla portata di chiunque. I provider diventano capaci di sviluppare piattaforme con molti utenti collegati contemporaneamente. La rete attira persone che le usano per mettere a disposizione le proprie competenze. Nascono siti di informazione che non sono legati alla giornalismo ufficiale. 

Gli artisti pubblicano i loro lavori on-line. Non sanno esattamente a che cosa tutto questo li porterà, tuttavia colgono l’opportunità che dà loro la tecnologia. Creano delle vetrine virtuali sperando di essere trovati e visti. Nascono le prime comunità on-line

Nel 2003 nasce MySpace, si tratta di una comunità virtuale di musicisti che condivide la propria musica, di artisti che condividono le loro opere.  La piattaforma soffre dell’impossibilità di adeguarsi rapidamente al crescente numero di utenti al conseguente bisogno di velocità e di banda per gestire la comunità.  A partire dagli anni 2000 si creano numerosi Social Network con un’idea produttiva originale e un target specifico. Tuttavia la gestione dell’infrastruttura, che richiede adeguamenti e investimenti continui, condiziona la crescita di queste comunità on line, ne decreta la nascita, il picco e la morte. Sopravvivono i più forti. Sono quelli che si sanno rinnovare rapidamente, ma soprattutto che riescono ad identificare il proprio pubblico e rispondere con fantasia e rapidità alle esigenze manifeste e ai desideri non espressi delle comunità che le sostengono. La condivisione sembra la caratteristica peculiare della rete. Conoscenza, creatività, competenza sono messe a disposizione gratuitamente. 

Ma come sostenere economicamente le attività sul web? 

Per alcuni piattaforme come MySpace o come Tumblr fungono da trampolino di lancio. Per altri rappresentano una speranza, un’opportunità che potrebbe sbocciare o morire in poco tempo. Ogni comunità virtuale cerca una propria vocazione, nascono Social come Twitter, ideali per chi fa informazione e politica, o collettori di immagini tematiche come Pinterest e piattaforme dedicate alle proprie competenze professionali come Linkedin

La musica prodotta in misura sempre crescente, digitalizzabile e diffondibile grazie alla compressione dei file mp3 abbandona MySpace cercando via via piattaforme che ne consentano la diffusione e soprattutto che aiutino i cantanti e i musicisti a collocarsi nel mondo del lavoro. La nuova moneta si chiama visibilità. E’ l’elemento di scambio con il quale le piattaforme come Youtube, fondata nel 2005 per la condivisione di contenuti multimediali, e Facebook, che crea la prima vera e propria “piazza” virtuale, pagano coloro che animano i social. 

Ma Youtube e Facebook non sono specializzate, lasciano vuoti che altre piattaforme cercano di colmare. Youtube rappresenta un ibrido, è la piattaforma migliore per la gestione dei video, la più veloce, la più efficiente. Acquisita da Google nel 2006, incrementa la propria linea commerciale grazie ad uno scambio di inserzioni pubblicitarie  create con un meccanismo d’asta.

Intanto Spotify dal 2006 raggiunge il target degli ascoltatori e dei produttori di musica diventando, dopo alti e bassi, il riferimento principale del settore. La moneta “visibilità” viene usata per pagare un bisogno manifesto, identificabile. Dietro l’artista che cerca visibilità c’è un ragionamento, c’è il desiderio di fare della propria passione un lavoro. Inizia un meccanismo di “monetizzazioni” collegate alla quantità di seguaci che ogni utente riesce ad attirare nella propria comunità.

Dietro le piattaforme come Faceook, Instagram o il nuovo TikTok, prodotto in Cina a partire dal primo musical.ly nato nel 2005, la moneta di scambio muta. TikTok , focalizzato principalmente sul sonoro e sull’imitazione, chiama in campo anche la memoria attraverso dei rafforzamenti indotti dai meccanismi di ripetizione delle clip. Gli utenti possono infatti creare gif e brevi clip musicali di durata variabile tra i 15 e i 60 secondi , modificare la velocità di riproduzione e aggiungere filtri.

Instagram consente di pubblicare fotografie e brevi commenti supportati da hashtag che classificano i contenuti li  rendono facilmente indicizzabili, ma volutamente non favorisce un dialogo verbale tra gli utenti, sollecita piuttosto una manifestazione di gradimento sui contenuti. Il “non” gradimento non viene esplicitato: non è possibile dire “non mi piace”,  il contenuto viene semplicemente ignorato e “non premiato”. Il premio è possibile, ma non certo

Questo meccanismo è in grado di generare una forte dipendenza come ben ci dicono le neuroscienze.

L’essere ignorati genera panico. Si tratta dello stesso meccanismo che provoca nei bambini che non vengono “visti” dai genitori crisi di identità fortissime. Se dunque sei ignorato dal  “tuo Social” entri in un meccanismo di ricerca di conferme (like) che ti “incolla” al Social Network. A questo meccanismo si aggiungono poi le “debolezze classiche” come il narcisismo e l’esibizionismo.

 

E quindi… chi guadagna cosa e come  e soprattutto che cosa succede al nostro inconscio? 

Facebook, Instagram, Spotify,  TikTok , Youtube utilizzano l’intelligenza artificiale per analizzare gli interessi e le preferenze manifestate dagli utenti in modo tale da poter personalizzare singolarmente i contenuti ad essi proposti.

Usano, per fidelizzare l’utenza, un meccanismo legato all’elargizione della ricompensa e inducono a comportamenti reattivi avviati dal sistema limbico e tendono ad escludere l’area della corteccia, l’area cerebrale più evoluta nell’uomo. Sono alcuni dei meccanismi che stanno alla base delle dipendenze. Inoltre introducono ritmi, meccanismi di ripetizione e variazioni sonore e luminose che favoriscono la memorizzazione dei messaggi pubblicitari.

In breve, mentre queste piattaforme ci condizionano per proporci inserzioni pubblicitarie e fidelizzandoci attraverso un meccanismo di dipendenza limitano le nostre scelte consapevoli, ci educano alla reazione invece che all’azione, riportando il nostro sistema cerebrale verso l’uso delle facoltà meno evolute. Mentre succede tutto questo veniamo monitorati continuamente e le informazioni su di noi sono messe a disposizione di chiunque le voglia comprare a qualsiasi scopo. Nel mentre, “socializziamo”, e magari viviamo il nostro quarto d’ora di celebrità.

Patrizia Genovesi