Interviste

Come vivono gli artisti? L’indagine di Santa Nastro

Come vivono gli artisti? Tutti sanno più o meno cosa fanno, ma in pochi se lo sono mai chiesti veramente. Eppure, è una domanda necessaria, essenziale, per capire lo stato di salute del sistema arte, essendo gli artisti alla base di questa struttura. Con sincerità e serietà, il libro-inchiesta di Santa Nastro (edito da Castelvecchi editore, con postfazione di Alessandra Mammì) racconta attraverso preziose testimonianze di diversi autori e altrettanto preziosi dati ricavati dai rapporti come quello di AWI – Art Workers Italia  lo scenario umano e stratificato dell’arte contemporanea, ma anche molto della società in cui viviamo. 

Intervista a cura di Serena Vanzaghi 

Leggendo il tuo libro si percepisce che il tema ti sta a cuore, che ti ha appassionata e che hai voluto “sposare la causa”, come si suol dire. Da dove è nata e come si è sviluppata l’idea di questa indagine narrativa e umana?

Questa inchiesta è nata da due articoli su Artribune pubblicati tra il 2018 e il 2019 che affrontavano attraverso punti di vista differenti e in un momento storico completamente diverso, lo stesso problema. In generale, però, io sono sempre stata interessata alla vita delle persone, sia nello studio della storia dell’arte che nelle passioni letterarie, quanto nella realtà. Va detto, poi, che molte di queste conversazioni sono nate a tavola, o nel tempo libero, perché tanti artisti e persone del settore sono amici e con loro ho condiviso l’analisi di alcune problematiche che poi ritroviamo nel testo.

Santa Nastro

Il quadro che il tuo libro offre su come se la passano (più o meno male, a parte qualche eccezione) gli artisti in Italia impone una riflessione a tutto tondo: dove si è sbagliato e dove si poteva fare di più anche rispetto alle opportunità che hanno i colleghi stranieri? 

Io non direi che “se la passano male”. Non è questo il punto. La precarietà è una condizione oggi universale che ha caratterizzato una intera generazione, non solo di artisti. Il problema non sta esclusivamente nei redditi, quanto nella percezione fluttuante dei redditi. Oggi guadagni molto, domani un po’ meno. In una ottica del genere è molto difficile programmare: programmare un investimento, una organizzazione familiare, avere degli ammortizzatori nei momenti di fragilità o di malattia e così via. La condizione precaria, che ha toccato il mondo del lavoro negli ultimi decenni in maniera sostanziale -e sicuramente quello culturale – fa parte da sempre della vita degli artisti, tanto che, come evidenzia il rapporto AWI* hanno quasi tutti poi altri lavori che permettono una gestione più regolare, ma allo stesso tempo non sempre vanno a integrare la pratica artistica. Sicuramente ciò che manca in Italia è il riconoscimento della figura dell’artista visivo e di misure come l’indennità di discontinuità (AWI ha depositato in Senato una proposta a riguardo non accolta). Per quanto riguarda i colleghi stranieri, ogni Paese fa caso a sé. Sempre AWI in questi giorni sta pubblicando su Instagram una competente e interessante analisi di casi studio, nazione per nazione. Certo, ciò che è mancato è stata una politica di investimento sistematico e continuativo a favore degli artisti italiani. Negli ultimi anni le cose sono molto cambiate e dei passi avanti si sono fatti. Speriamo che con le prossime elezioni questo movimento favorevole non subisca una battuta d’arresto!

Marco Raparelli, Interesting artwork, 2016 china su carta, cm 20×30

Nelle testimonianze raccolte dalla viva voce degli artisti, spesso emerge come le esperienze indipendenti (attraverso gli artist run space, per esempio) oppure le residenze, soprattutto all’estero, siano fondamentali nello sviluppo della propria ricerca e del proprio lavoro. In cosa manca dunque il sistema istituzionale, musei o gallerie o fiere in Italia? 

Si tratta di piani molto differenti. La residenza d’artista, il bando e le realtà indipendenti sono complementari del “sistema istituzionale”. Sicuramente però alcuni artisti con pratiche poco commercializzabili o oggettuali, ma non per questo meno interessanti di altri, hanno trovato in queste esperienze, nei cosiddetti bandi, i luoghi più opportuni in cui sviluppare la propria pratica e i propri progetti, garantendo una sostenibilità economica. Alcuni artisti intervistati hanno inoltre sottolineato come prima della pandemia l’arte italiana non storicizzata sia stata poco raccontata dal sistema istituzionale nazionale, in favore di una ricerca più votata all’estero. Credo che dopo la pandemia ci sia stata una sana inversione di tendenza. In generale però il mondo delle residenze e degli spazi no profit e quello dei circuiti tradizionali dovrebbero camminare a braccetto, non essere alternativi.

I luoghi di formazione – in primis Accademie e scuole – non dovrebbero maggiormente contribuire, tra i vari obiettivi, a costruire maggiore identità e consapevolezza negli artisti? Ho l’impressione che a volte non vadano sempre al sodo su aspetti pratici della vita che invece – per tutti i giovani e non solo per gli artisti – sono fondamentali nel percorso di crescita…

In questo sono in disaccordo. Secondo me le Accademie di Belle Arti e le scuole – in Italia ce ne sono tante, pubbliche e private – in generale fanno un grande lavoro. Io stessa ho frequentato, prima di laurearmi in Storia dell’Arte, una Accademia di Belle Arti (a Milano, Brera) e credo che sia stata una grande palestra di vita, dove nessuna difficoltà è stata mai nascosta. Credo anzi che le Accademie e le scuole andrebbero supportate di più e riconosciute maggiormente nel lavoro che svolgono in modo da permettere loro di offrire da Nord a Sud servizi sempre più efficaci alla formazione dello studente, dottorati e possibilità di tirocini professionali. Poi sicuramente si può fare una analisi più approfondita dei punti di forza e di criticità, ma i fondamentali mi sembrano buoni.

Marco Raparelli, Let’s Talk about art (dal Libro “permafrost” Cura edizioni) 2012
china su carta,

Il rapporto AWI – Art Workers Italia* fornisce dati allarmanti sulla condizione degli artisti e degli addetti al settore dell’arte contemporanea. Come lavoratori sono pressoché inesistenti, forse invisibili allo Stato proprio perché categoria che non produce molto in termini di profitto. D’altronde anche durante il lockdown, come giustamente noti nel tuo libro, nei decreti e nei vari aiuti stanziati alle diverse categorie abbiamo potuto constatare come gli artisti e gli operatori dell’arte siano stati dimenticati o peggio derubricati a coloro “che ci danno leggerezza e che ci fanno tanto ridere” (cit.), denotando una totale mancanza di visione dei soggetti stessi…   

I rapporti Symbola e Federculture in Italia, il rapporto post pandemia dell’Unesco parlano di un settore culturale e di industrie culturali e creative come floridi e partecipanti attivamente alla vita del Paese. Ma anche (Unesco) come di settori fragili, perché sono quelli in cui si disinveste più facilmente. Il già citato DDL 2318 passato lo scorso maggio al Senato riconosce l’indennità di discontinuità – in parole povere quella che va a coprire i periodi di inattività, ma funzionali alla ricerca – ai lavoratori dello spettacolo. Giustissimo. Purtroppo, però la stessa indennità non è stata riconosciuta agli artisti visivi e gli intellettuali del nostro settore. Quando l’ex Presidente del Consiglio ha parlato di “artisti che ci fanno tanto divertire” non aveva certo in mente gli artisti visivi, quanto il mondo dell’entertainment, perché i primi sono spesso poco considerati nelle logiche politiche e dall’opinione pubblica. In questo, però ci vuole anche un mea culpa del mondo dell’arte, che appare sempre un po’ chiuso su se stesso e molto raramente e non sempre efficacemente – il libro cerca di operare una ricostruzione storica su questo – ha sviluppato un dibattito oserei dire sindacale su questi temi, aprendosi generosamente al pubblico. Proprio per questo l’esperienza di AWI mi sembra veramente rilevante.

Questione bandi: una grande fetta di artisti mid-career, che ancora avrebbero bisogno di essere sostenuti, sono tagliati fuori dalla falce “under 35” e bandi più strutturati come l’Italian Council (che fortunatamente sono stati introdotti anche in Italia) hanno però limiti di fondi o per esempio non premiano in modo congruo la parte di ricerca e progettazione. Quali cambiamenti significativi andrebbero operati secondo te?

Anche in questo mi sembra che ci siano stati dei cambiamenti sostanziali, sono nati bandi che favoriscono la scrittura, la produzione di libri, la produzione di opere. Il tema però è sempre quello della “produzione”: alla fine ci deve essere una ricaduta, che sia pubblico, che sia un oggetto, che sia una pubblicazione. Attenzione, io capisco la logica e anche la difficoltà di chi scrive questi bandi, che ha bisogno di una rendicontazione e di una evidenza, quindi non sto criticando. Mancano però delle borse di studio o delle fellowship – sono molto interessanti i modelli delle Accademie straniere a Roma, in questo senso – che aiutino gli artisti attraverso esperienze a sviluppare la propria ricerca, e andrebbero intensificate le opportunità come Movin Up o Italian Council che permettono ai nostri artisti di viaggiare all’estero. Quest’anno l’Italia ha guadagnato un ricco parterre di medaglie ai Campionati Europei di Nuoto e Atletica e ne siamo andati molto fieri. Ma cosa succederebbe se gli sportivi fossero sostenuti solo nel momento nella gara e non in tutto il ben fondamentale periodo degli allenamenti?

Marco Raparelli, Interesting artwork, 2016 china su carta,

L’arte contemporanea in sé è comunque un mondo pieno di contraddizioni, a ben vedere: il tuo libro delinea uno scenario ben diverso dai vernissage esclusivi, le location modaiole e i grandi eventi à la page. Anche questo contribuisce a creare dei limiti non indifferenti…

C’è sicuramente un discrimine tra ciò che appare e ciò che è. Poi va anche detto che l’arte spesso si accompagna alle cose belle della vita e questo pure va bene. Certamente, ad un certo punto, durante la pandemia il re è stato nudo e spariti “gli eventi” l’intero sistema si è trovato faccia a faccia con le difficoltà, le sfide, le problematiche che un evento così epocale ha posto. Ricordo molto bene i tanti post sui social di persone oggettivamente preoccupate, interi settori di produzione fermi, …. Ma ricordo anche l’entusiasmo e la quantità di iniziative digitali, e il momento veramente interessante di autoriflessione che il settore dell’arte ha operato in varie iniziative su Clubhouse.

Poi, la pandemia ha allentato la morsa e sono ritornate le foto con gli champagnini in Laguna, e spesso la sensazione è quella della rimozione. La speranza è che questi dibattiti e queste riflessioni continuino in maniera seria, ragionata, professionale e collegiale.

Da giornalista e da esperta di comunicazione come speri che gli organi di informazione possano e debbano prendersi in carico questi aspetti con continuità e sostanzialità, per poter migliorare la necessaria visibilità di cui anche questi temi scomodi hanno bisogno? 

Fare comunicazione è oggi un lavoro difficile e faticoso, richiede una velocità – nel cogliere l’informazione e trasmetterla al lettore nel modo giusto, accurato e allo stesso tempo che colga la sua attenzione – davvero impressionante. La stampa sta cambiando e i giornalisti lavorano veramente sodo. Non voglio insegnare niente a nessuno, spero solo che questi temi, che non ritengo scomodi, ma reali, continuino ad avere spazio sulle pagine dei giornali, con l’approfondimento che meritano. E che allo stesso tempo la stampa possa dare voce anche agli artisti più giovani e meno famosi. Gli artisti sono una delle grandi risorse del nostro paese, le loro storie, le loro opere meritano di essere raccontate.

Serena Vanzaghi 

*Dati AWI – Art Workers Italia:  il rapporto si compone di 440 interviste con un campione costituito da lavoratori nati tra gli anni ’80 e ’90. Il quadro che emerge è quello di una generazione con formazione di alto livello; tuttavia “nella maggior parte dei casi, dispone di contratti instabili e quindi di poche o scarse tutele, oltre che di redditi non proporzionali alle competenze richieste. La grande maggioranza (81%) è costretta a svolgere più lavori, sia nell’arte sia in altri ambiti. Solo per il 27,7% l’attività di artista rappresenta anche la principale fonte di reddito; il 38,8% ha almeno un’altra attività nell’arte contemporanea, e in aggiunta il 46% ha almeno un’attività al di fuori del settore, una scelta motivata dal fatto che non riescono a mantenersi. Un’esigenza che si fa sempre più pressante al crescere dell’età e che spiega la maggior presenza di slash workers (ovvero professionisti/freelance con un bagaglio di competenze varie che permettono di avere più fonti di reddito) nelle fasce meno giovani.

In copertina: Cristiano De Gaetano, Family in the old city, 2007, collezione Fondazione Pino Pascali, foto di marino Colucci

About the author

Serena Vanzaghi

Serena nasce a Milano nel 1984. Dopo gli studi in storia dell'arte, frequenta un biennio specialistico incentrato sulla promozione e l'organizzazione per l'arte contemporanea. Dal 2011 si occupa di comunicazione e progettazione in ambito artistico e culturale.